PRIMO APPUNTAMENTO

Ele aveva un appuntamento.
 
Era il primo appuntamento che un ragazzo le chiedeva da 6 anni a questa parte.
 
Aveva staccato dal lavoro alle otto, preso l’autobus e raggiunto gli altri a all’Irish Pub. Per paura di ubriacarsi aveva deciso di mangiare tanto, così si era fatta un Twin Tower: doppio hot-dog con praticamente ogni genere di salsa inventata nella storia della gastronomia. In compenso non aveva bevuto niente, e adesso si sentiva la pancia che scoppiava, e non era proprio il massimo come preparazione a un primo appuntamento.
 
Non lo conosceva molto bene, il tipo. Lo aveva visto tre o quattro volte. Una cosa sola sapeva di lui con certezza: che era un gran figo, e questo – come dire – per il momento era sufficiente.
 
Era venuto un paio di volte al negozio dove lei lavorava. Poi, per qualche giorno, era sparito. Si erano incontrati una volta, mesi dopo, al Corso, e lui tutto cerimonioso le aveva detto che era tornato al negozio a cercarla. “Ma non c’eri”.
“Evidentemente sei venuto quando io non lavoravo!” le aveva risposto lei secca. Poi, però, l’aveva subito aggiunto su facebook e avevano iniziato a chattare.
 
Aveva 4000 amici il tipo, e quasi tutte donne. Ed Ele si era messa in testa – per qualche motivo – che fosse gay.
 
“Esci con qualcuno?” le aveva chiesto lui un giorno.
“Stasera?” aveva risposto lei.
“No, voglio dire… in generale…”.
 
Oops.
Ele si era all’improvviso d’immenso illuminata. Cioè, le stava chiedendo un appuntamento? Un ragazzo le stava chiedendo un appuntamento?
 
Erano anni che doveva prendere sempre lei l’iniziativa. Sempre. Ogni cazzo di volta. Era successo con tutti i ragazzi con cui era stata. Tutti, nessuno escluso.
 
Li doveva trascinare agli appuntamenti. Lele, poi, una volta se lo era persino perso. Continuava a chiamarlo: “Ma dove cazzo stai?”. “Sto qui da Jena” aveva risposto lui.
Erano le una passate, e lei aveva attraversato il centro storico da sola, per raggiungere Jena. E lui non c’era. “Ti è venuto a cercare” aveva detto Paffo, che stava lì. Lo aveva richiamato. E lui: “Sto a piazza Tacito”.
Alla fine lo aveva incontrato al Corso, alle due e mezza, completamente ubriaco.
 
Leo, Giada e Ceci si erano imbarcati in un impegnativo torneo di tressette e visto che lei a tressette non ci sapeva giocare, se ne era rimasta in silenzio, a fantasticare su questo primo appuntamento.
 
Non le pareva vero, di averne uno. Erano sei anni che un ragazzo non le chiedeva un appuntamento, e considerando che la nostra eroina aveva vent’anni, possiamo calcolare che l’ultima volta che un ragazzo le aveva chiesto di uscire Ele aveva appena 14 anni, e i genitori, a quell’età, non la facevano mica uscire da sola. Quindi, quell’unico appuntamento, era finito nel vuoto.
 
All’orizzonte spuntò all’improvviso la sagoma grassoccia di Nillo: se ne andava in giro in bicicletta con l’aria di chi sta facendo tardi ad un incontro. Ele lo chiamò e lui si avvicinò.
“Dove te ne vai?”.
“Ho appena staccato dal lavoro e… niente, prendo un po’ d’aria”.
 
Si erano fermati a chiacchierare per più di un’ora, e l’argomento principale erano state le imprese televisive di Richard Benson, reduce da un nuovissimo programma su BluTv.
Benson era un curioso incrocio tra una vecchia rockstar distrutta dall’alcool, un deejay metallaro, un comico, un caso umano e un fenomeno da baraccone e mentre Ele e Nillo ne parlavano Leo, ogni due minuti, sollevava la testa dalle carte e interrompeva la partita per cimentarsi nella sua riuscitissima imitazione.
 
Alla dieci e mezza Nillo, che aveva ormai evidentemente rinunciato al suo appuntamento, appoggiò la bici al muro, si sedette al tavolo con loro e ordinò una birra e un Gigi o’ pazzo – wrustel e uova strapazzate – giusto perché quel giorno aveva iniziato la dieta.
 
Ele, sempre più nervosa per l’appuntamento imminente, optò anche lei per una bionda, e alla fine ne nacque una piccola contesa su chi doveva pagare, perché Nillo voleva offrire a tutti i costi, ma poi era stata Ele a pagare  il conto e adesso lui non aveva gli spicci nemmeno per restituirle la sua parte e alla fine fu costretto a ordinare una porzione di patate fritte – tanto per completare la dieta – per spicciare i soldi e restituire a Ele il dovuto.
 
Ma Ele, lei stava da tutta un’altra parte mentre Nillo le spiegava come aveva deciso di mettersi a dieta quando si era accorto che nemmeno vestirsi completamente di nero impediva più alla gente di esclamare: “Quanto sei ingrassato!”.
Guardava ogni trenta secondi il telefonino, la nostra amica ventenne: “Dovrebbe chiamare, adesso” si ripeteva.
 
Erano le undici meno dieci e l’appuntamento era per le undici.
Certo, non è proprio il massimo avere un appuntamento a quest’ora nel mezzo della settimana, quando il giorno dopo ti devi alzare alle otto per andare al lavoro. Ma il tipo aveva una partita. Una partita a scacchi, di un qualche torneo. E questa cosa le piaceva, ad Ele.
Il tipo era uno scacchista e questo lo rendeva ai suoi occhi un raffinato intellettuale, un uomo intelligente, una mente analitica. Insomma, proprio il tipo di ragazzo che avrebbe voluto a fianco in quel momento.
 
“Ho un appuntamento!” disse, infine, non riuscendo più a trattenere la notizia.
Giada, Ceci, Leo e Nillo non sembravano molto colpiti. 
“E’ la prima volta che mi succede da sei anni a questa parte!” aggiunse lei, con un sorriso a banana. “Devo andarmi a truccare!”.
 
Corse al bagno dell’Irish pub e si diede una ritoccata generale. Niente rossetto; giusto un po’ di matita e un po’ di correttore per coprire le occhiaie. Peraltro Nillo aveva appena finito di illustrare la sua teoria secondo cui una bella ragazza è sempre più bella acqua e sapone, ché il trucco serve a coprire, e allora se sei brutta non è male coprirsi un po’, ma se sei bella coprire può essere solo deleterio. Ed Ele era una ragazza molto carina. Su questo, almeno, non c’erano dubbi.
 
Tornò al tavolo. Ceci e Giada se ne erano andate e Leo era all’altro tavolo che chiacchierava affettuosamente con Margot. Erano le undici e dieci, ormai, e il tipo ancora non aveva chiamato.
 
Nillo notava che starsene all’aperto in maglietta a quell’ora in pieno ottobre, era quantomeno singolare e se ne partì con uno di quei suoi discorsi sull’effetto serra, l’inquinamento ambientale, le zanzare tigre eccetera eccetera. Ele, in realtà, stava pensando a quanto era stata sfigata, fino ad oggi, in amore. E si domandava cosa c’era che non andava, in lei.
 
Il suo primo ragazzo l’aveva lasciata il giorno di San Valentino. Anzi no, per essere precisi si era fatto lasciare il giorno di San Valentino, ché il vigliacco non aveva avuto neppure le palle per prendere l’iniziativa, quella sera, e se ne era restato un’ora in silenzio dopo che lei le aveva dato il regalo. In totale silenzio.
 
Quello dopo, l'idiota che si era appena seduto al tavolo di fronte, proprio alle spalle di Nillo, dopo due settimane che stavano insieme le aveva detto “ti amo” e poi, dopo altre due settimane l’aveva lasciata, perché era ancora innamorato della sua ex. L’idiota.
Ecco, e ci mancava solo di trovarselo di fronte proprio questa sera, l’idiota, accompagnato dalla sua ex tornata nel frattempo ad essere la sua ragazza, con quegli occhiali da sfigato e quel ridicolo farfallino stampato sulla maglietta.
 
Fanculo alle minestre riscaldate. Ele aveva un appuntamento nuovo di zecca, quella sera, alla faccia di tutti gli ex. Ma che cazzo però, erano quasi le undici e mezza. Quanto era lunga ‘sta partita di scacchi?
 
“Perché non lo chiami?” suggerì Nillo.
 
Azzo, ma perché doveva sempre fare tutto lei? Per una volta, che sperava di poterne fare a meno.
 
Prese il telefono e compose il numero. Uno squillo e basta. Poi riattaccò.
 
Cinque minuti dopo squillò il telefono. Era lui.
 
“Oh ciao la partita è finita adesso, so’ tutto sudato!”.

Sudato? A una partita di scacchi?

“Cazzo me so' magnato cinque golle. Stavamo sempre davandi alla porta ma non segnavamo mai!”.
“Beh però – soggiunse lei, non sapendo che dire – ad ogni modo ti è venuta l’adrenalina, che ti fa bene…”.
“Comunque unu je l’emo fatto. Alla fine emo pareggiato”.
“Bene. Bravi” mormorò lei.
“Mo me devo annà affà la doccia. Tu ‘ndo stai?”
“Sono all’Irish”.
“Vabbé daje allora, quanno ho fatto te raggiungo là”.
 
Ele attaccò il telefono e guardò Nillo con aria perplessa. “Non era a una partita di scacchi – disse – stava giocando a calcetto. Ha finito adesso, dice che si fa una doccia e mi raggiunge qui”.
Nillo la guardò con aria vagamente compassionevole, senza dire nulla. Si limitò ad ingurgitare l’ultima patatina e a bere l’ultimo sorso di birra.
 
“E’ un grezzo!” esclamò lei. “Cazzo, è più grezzo di me!”.
Nillo fece spallucce.
“Che altro dovevo aspettarmi da uno di Papigno?”.
“Anche tu sei di Papigno”.
“Appunto… mi ricordo che quando ho conosciuto Lele mi sembrava impossibile che potesse venire dalla mia stessa città. Cioè, lui parlava italiano benissimo! Ero anche un po’ a disagio quando stavo con lui, o con suo fratello. Quasi avevo paura di aprire bocca. E questo tipo…. me so' magnato cinque golle. Ma che cazzo. Secondo te quanto ci mette per farsi una doccia?”.
 
“Scusate se mi intrometto ma ‘sta ragazza io la devo salutare assolutamenteeeeeeeeeeeeeeeeeeee!!!!!!!!!!!”.
 
Una specie di balenottera dark era piombata all’improvviso sul tavolo. Nillo la guardava con aria divertita: era Sonia.
 
“Alloracomestaichecombinichefaidaquesteparticomevanno lecoseee?”.
 
“Tutto ok” fece Ele. Poi guardò di nuovo il cellulare.
“Che c’è?” chiese la balenottera.
“Ho un appuntamento!” disse Ele sorridendo.
“Dai, che bello! Chi è?”.
“Forse lo conosci…” e le disse nome e cognome del tipo.
“Madddai!” esclamò la balenottera. “Lo conosco sì! Siamo cresciuti insieme, praticamente!”.
Poi si fece seria, all’improvviso.
“Però… oddio mi dispiace dirti così, ma insomma….”.
“E’ gay? – la interruppe Ele – no, perché il sospetto ce l’ho avuto subito”.
“No, no, anzi… al contrario…”.
Sonia si avvicinò e le disse all’orecchio: “Io ci sono anche andata a letto!”.
 
Ele restò pietrificata. Ma proprio con lui, doveva andare, questa stronza?
 
“Però insomma – riprese Sonia – questo è uno che cerca solo quella, devi saperlo. E sinceramente non vorrei che ti facesse fare delle cose che tu non vuoi”.
“Con questo ritardo – esclamò Ele – non gliela dò per principio”.
“Se hai bisogno posso portarti a casa io, anche se in realtà non ho la macchina. Ma un passaggio lo troviamo”.
“Non preoccuparti. Ti ringrazio, ma mi organizzo”.
“Ok, ciao cara”.
 
Restò a guardarsi in silenzio con Nillo, che scuoteva la testa.
“Oi, io vado” fece Leo.
“Ciao, Leo. Cazzo io devo fumare”.
 
Attraversarono il centro storico e arrivarono al Rendez-Vous. Ché tanto se il tipo fosse arrivato l’avrebbe chiamata, e lei in cinque minuti sarebbe stata all’Irish.
 
Le Lucky Strike non ce le avevano più, ed Ele ingaggiò un dibattito con la cassiera per stabilire quali – tra le sigarette disponibili – erano quelle più simili  Alla fine prese un pacchetto di Pall Mall e uscì dal bar piuttosto indispettita dall’atteggiamento indisponente dell’acidissima tabaccaia notturna.
 
Certo, il colore rosa del pacchetto e le sue dimensioni – così ridotte per essere uno da 20 – avrebbero dovuto metterla in allarme, ciononostante fu amara e inaspettata la sorpresa di ritrovarsi fra le mani, una volta aperto il cazzo di pacchetto, le odiatissime puttanelle.
 
Di solito, nei periodi più stressati, Ele fumava un pacchetto di sigarette al giorno. Ma quella notte – solo quella notte – si sarebbe fatta fuori dieci puttanelle, al ritmo di una ogni dieci minuti.
 
Era passata la mezzanotte e mezza. I tavoli all’aperto dell’Irish perdevano sempre più astanti, ma del tipo ancora nemmeno l’ombra.
 
“Forse è quel coglione lì, con i pantaloni bianchi” disse a Nillo additando un giovanotto che si avvicinava dal fondo della piazza. Ma no, non era lui.
E non era lui nemmeno quell’altro coglione che passeggiava vicino alla fontana, in compagnia di un amico, e nemmeno quel coglione circondato da tre ragazze, e ci mancava solo che si presentava con tre amiche, il coglione. E nemmeno nel gruppo che si stava avvicinando, c’era in mezzo il coglione. Ché non si sarebbe mica stupita, ormai, se si fosse presentato all’appuntamento con tutta la squadra di calcetto.
 
Insomma, che fosse un coglione, ormai, lo dava per appurato. Ma nessuna delle ombre che sorgevano all’orizzonte corrispondeva al fisico atletico del tipo.
 
Finalmente squillò il cellulare.
“E’ lui!”.
Rispondendo al telefono si trasformò nella più soave delle fanciulle in paziente attesa del principe azzurro.
 
“Aò, senti, io sto ancora a cena coll’amici”.
“Ah”.
“Eh no, è che non è che me ne posso andare cuscì e lascialli qua, capisci? Cioè che mica posso fa come se c’avessi mamma e papà che m’aspettano a casa, no?”.
“Certo”.
“Mo, ecco, frampò arrivo. Tu dove è che stai?”.
“Sono all’Irish. Ti aspetto qui”.
“Ok, capo”. E attaccò.
 
“Che dice?” chiese Nillo.
“Ha detto Ok capo. Arrivo”.
“Bene. Sarebbe pure ora. Ma tu sei sicura di voler uscire con uno che ti tratta così al primo appuntamento? No, dico, di solito noi maschi per arrivare questi livelli ci mettiamo anni di fidanzamento!”.
“Guarda, ormai sono solo curiosa di capire fino a che punto arriva, il coglione”.
“No, io credo semplicemente che ti piace così tanto che sei disposta a farti trattare come uno zerbino”.
Ele per un momento perse il suo sorriso a banana.
“Non ti vuoi sedere? – soggiunse Nillo – Ci prendiamo un’altra birra”.
Ele scrollò le spalle. “No, ha detto che sta arrivando”.
“Ok, allora io vado. Che magari se ti trova con un uomo si sfastidia pure. Se hai bisogno, però, chiama, eh”.
“Ok”.
“Non fare che te ne torni un’altra volta a Papigno a piedi, da sola”.
“Capirai, ci metto mezz’ora”.
“Non dire cazzate. Sono le una di notte”.
“Ti chiamo. Se ho bisogno di un passaggio ti chiamo. Ma sono sicura che sta arrivando”.
 
Nillo inforcò la bicicletta (che peraltro – le aveva appena detto – aveva precisa proprio l’età di Ele) e scomparve dietro il palazzo della biblioteca.
 
Altre ombre si mossero in quella piazza, nell’ora che seguì. Ma in nessuna di esse, una volta vicina, Ele riuscì a scorgere il bel volto del tipo.
 
Alle una e un quarto entrò nel pub e si fece un Irish coffee. Magari mi tiene sveglia, si disse. Oppure mi risolleva l’umore.
Ma in realtà non fece nessuno dei due effetti previsti.
 
Tornò a sedersi a un tavolo, da sola.
 
Di fronte a lei c’era un matto che parlava con una colonnina dell’Enel. Poi aveva preso a picchiarla, con colpetti veloci come fosse uno strumento a percussione. Infine l’aveva lasciata e si era andato a sedere ad un tavolo di intellettuali radical-chic che parlavano di non so che film che aveva scandalizzato il pubblico borghese.
“Gente che pensa di essere progressista, ma in realtà è molto bacchettona” diceva una donna.
 
Erano le una e mezza passate, ma quando Ele cedette alla tentazione di chiamarlo di nuovo, si accorse di aver finito il credito. Non solo, ma fra poco avrebbe finito anche la batteria, se il coglione non si sbrigava a chiamarla o a farsi vedere…
 
I ragazzi dell’Irish avevano cominciato a togliere tavoli e sedie mentre la gente se ne andava.
Era rimasta solo lei, in mezzo alla piazza ormai quasi deserta quando – alle una e tre quarti – arrivò il sospirato squillo.
 
“’Ndo stai?”
“Sono all’Irish – fece lei con la solita voce soave – sono qui davanti all’Irish”.
“Senti io arrivo tra tre minuti. Dove ci vediamo?”.
“Io sono all’Irish”.
“Beh, allora ci vediamo davanti Palazzo Spada, ok?”.
 
Ah, ecco.
Si incamminò da sola verso il Municipio. Attraversò piazza Solferino, piazza Europa e finalmente arrivò di fronte a Palazzo Spada. In tre minuti precisi.
Ma ovviamente, lui non c’era.
 
Erano passate le due e il centro cittadino era ormai completamente deserto. Ogni tanto qualche macchina si avvicinava, e lei – rischiando di essere scambiata per una peripatetica – si avvicinava, timidamente, ogni volta per vedere se alla guida c’era lui.
Perché non poteva certo pretendere che il tipo, una volta arrivato, fosse sceso dall’auto per andarle incontro, questo è ovvio.
 
Un appuntamento alle undici di sera nel mezzo della settimana, e quattro ore di ritardo. Un primato davvero. Da Guinness. Guinness degli idioti, però, si diceva Ele.
 
Eppure chissà quali imprevedibili sviluppi avrebbe potuto riservare, una storia d’amore iniziata in quel modo così assurdo…
 
Alle due e venti l’ennesima macchina si fermò di fronte alla solitaria ragazza. Stavolta, però, dentro c’era proprio lui. Proprio lui!
 
Ele volò verso l’Audi e saltò dentro.
 
“Uè ciao – sorrise lui – alla fine eccomi. Starai guasta!”
“No, non sto guasta”.
“Mabbé si vede!”.
 
Come andò, poi, questo sospiratissimo primo appuntamento, il vostro umile cronista non può svelarlo perché ha avuto – anche se stentate a crederci, lo so – la discrezione di non chiedere ad Ele i particolari della serata.

Tutto ciò che sappiamo è che i due si diressero subito al forno notturno Sbrenna, perché al tipo glil si era fatta voglia di pizzette. Subito dopo aveva cominciato a lamentarsi di quanto gli faceva male il piede, ed Ele – dopo averlo sentito guaire come un cagnolino bastonato per quaranta minuti – ardì chiedergli "Che hai fatto?''.
''M'hanno pistato un piede'' rispose lui lamentoso.

"'Ah…, dai.. un po' di riposo e ti passa''
"'Beh sci, però non poi capì… pijace 'na pistata con un tacchetto da 13 e poi me lo ridici''
.

Poi la riaccompagnò a casa dopo un’ora esatta di appuntamento e la salutò alle tre di notte senza nemmeno un bacio, ma con un appellativo che indicò chiaramente di quale dolce pasta fosse fatto il solo apparentemente ruvido e distratto giovine:
 
“Ciao cucciola!”.

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