TERRAFERMA, MA ERA MEGLIO SUL MARE

 


Terraferma.

Ferma come il cuore dello spettatore, che resta immobile, freddo, imperturbabile di fronte alla nuova opera di Emanuele Crialese.

Non è che sia un film brutto, Terraferma, intendiamoci. E' semplicemente inutile.

E' un film che non scalda, che non smuove, che non arriva. Un granidoso affresco di natura e di fauna umana che non trasmette nulla: né emozioni, né conoscenza, né consapevolezza. Si resta freddi durante la proiezione e si esce dal cinema esattamente come si era entrati.

Un vero peccato, per un film che ha il merito di aver raccontato una delle realtà più ingombranti e al tempo stesso più invisibili del nostro paese: gli sbarchi clandestini a Lampedusa. Ne sentiamo parlare in continuazione ma non li abbiamo mai visti, non abbiamo mai avuto l'occasione di avvicinarci davvero a quel tipo di realtà e di capire in che condizioni assurde sono costretti a vivere i pescatori che a soccorrere i naufraghi dei barconi si ritrovano incriminati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.

Per questo lascia un senso di profonda amarezza constatare come questo importante, coraggioso e delicato compito , venga affrontato dal regista con una sceneggiatura superficiale e piena di banalità e luoghi comuni, un cast strampalato e una regia più furba che ispirata.

I personaggi – tutti – sono tagliati con l'accetta: da una parte ci sono i buoni (i pescatori), dall'altra i cattivi (carabinieri e guardia di finanza). E in mezzo i sono loro: gli immigrati. Siamo abituati a guardarli come “massa”, come dei poveri disperati privi di identità e tali li lascia il film.

E pensare che una di loro è persiino tra i protagonisti: la etiope Sara, interpretata dalla debuttante Timnit: Crialese riesce a tenere questa donna sempre in primo piano senza darle nemmeno per un momento la dignità di personaggio.

Sara resta, per tutto il film, solo una poveretta da aiutare. Tutto ciò che sappiamo di lei è che ha un figlio piccolo, un altro appena nato, che è stata violentata in prigione, che ha un marito a Torino che le manda i soldi. Da lei riceviamo quindi solo le informazion che servono a costruire il classico modello di “poveretto da aiutare”. Sara non parla mai della sua vita, della sua famiglia, dei suoi sogni. Si limita a chiedere aiuto e a ringraziare. Non è una persona, è una clandestina.

Persino Atanganà di Sul mare, il quei pochissimi minuti in cui restava in scena, riusciva a dimostrare di essere un uomo prima che un extracomunitario.

Un film – quello di Alessandro D'Alatri – di ben minore fortuna ma che Terraferma tende a scopiazzare in più punti, a cominciare dall'incontro tra il “buon selvaggio” isolano e la coetanea snob venuta da Milano che – non a caso – è interpretata in entrambi i film dalla bravissima  e magnetica Martina Codecasa.

C'è meno coinvolgimento (sentimentale per loro, emotivo per lo spettatore) nel rapporto tra i Filippo e Maura di Terraferma rispetto a quello che c'era tra Salvatore e Martina in Sul mare. Ma le dinamiche, e persino alcune scene (come la gita notturna in barca) sono le stesse. Con la differenza che il ventenne di Lampedusa ha molta meno personalità del suo coetaneo e omologo di Ventotene; per non parlare dei due personaggi interpretati da Codecasa: la Martina di Sul mare, fragile, viziata ed egoista com'è, può risultare anche sgradevole, ma è indubbiamente un personaggio dotato di un enorme spessore. Maura, invece, è un personaggio fondamentalmente vuoto, piatto e inutile come gli altri del film. Rimane – come tutti – in superficie. Impossibile, da come ce la mostra il film, anche solo intuire il suo mondo interiore. E' una turista fighetta, punto e basta. Così come, d'altra parte, Sara è una povera immigrata, Ernesto il buon pescatore e Claudio Santamaria un cattivissimo capitano della finanza.
Insomma, più che un film un gioco di ruolo.

In compenso, ad una pessima sceneggiatura si affianca un casting del tutto privo di senso, in cui il sapore neorealistico suggerito dagli attori presi dalla strada (come il giovane protagonista) viene rovinato dalla presenza di professionisti iper impostati e – peggio ancora – da un volto inflazionatissimo della televisione come Beppe Fiorello.

Considerata, peraltro, l'onnipresenza di Fiorello nelle fiction Rai e l'imbarazzante esaltazione di cui è stato fatto oggetto la scorsa estate (con un ciclo “Tutto Fiorello”degno della celebre “Storia di un italiano” realizzata per Alberto Sordi negli anni '80) e considerando che Terraferma è stato prodotto da Rai Cinema e distribuito dalla 01 (ancora Rai) viene il legittimo sospetto che il divo siciliano non sia stato scelto dal regista esattamente per i suoi meriti artistici o perché il ruolo gli calzava a pennello.

D'altra parte, come da copione – questo sì, impeccabile e collaudato – il film ha suscitato le lodi della solita critica compiacente (la stessa che aveva stroncato il capolavoro del forse troppo anticonformista D'Alatri) ha raccolto premi a Venezia e ora è stato scelto per rappresentare l'Italia agli Oscar. Ma difficilmente arriverà alla cerimonia. Non che manchino, a Los Angeles, lobby di potere e registi protetti, ma almeno il pudore di premiare film che siano anche belli, gli americani, ancora ce l'hanno.


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