L’ESEMPIO DI RATZINGER

Saranno due i momenti del pontificato di Benedetto XVI destinati a passare alla storia: l’elezione e le dimissioni.

E’ vero che la sua elezione è molto improbabile, proprio in virtù della sua identità”.

Così parlavo di Joseph Ratzinger, in Che Papa sarà  scritto otto anni fa, durante la messa Pro eligendo pontefice.

Dicevo che un eventuale papato di Ratzinger sarebbe stato l’unico a non riservare sorprese: che avrebbe puntato ad una Chiesa più piccola e più forte, interessata alla dottrina e non alla politica internazionale ma che avrebbe fatto pulizia nella Curia romana.

Forse ero stato un po’ troppo ottimista. La verità è che di momenti significativi, in questi otto anni, non ce ne è stato nemmeno uno: Ratzinger, come previsto, non ha cercato di seguire le orme del suo predecessore, non si è preoccupato di un confronto da cui sarebbe uscito sconfitto comunque. D’altra parte, proprio per questo è stato eletto: perché era l’unico che poteva permettersi di sfuggire al confronto con Wojtyla. Come dire, non ci ha nemmeno provato, a mantenere il papato su quei livelli di popolarità e di autorevolezza.

Una battuta di Maurizio Crozza riassume più di ogni altra chiacchiera questo pontificato.

Kfando parlava Ciovanni Paolo II tutti dicevano: Che bravo il papa!
Adesso, kfando parlo io, tutti dicono: Che bravo il Papa – che c’era prima!

Nei suoi primi otto anni di pontificato Wojtyla aveva già cambiato il mondo:  aveva risollevato il popolo polacco contro il comunismo, deluso gli oppressi in Sudamerica, subito l’attentato in piazza San Pietro, minato il comunismo in Russia, convocato tutte le religioni del mondo ad Assisi. Giovanni XXIII, poi, in cinque anni aveva rivoluzionato l’immagine stessa del Papa, convocato il Concilio Vaticano II, sventato una guerra nucleare.

Se invece ripensiamo a questi otto anni con Benedetto XVI, non c’è un solo momento in cui possiamo dire che il Papa abbia svolto un ruolo da protagonista sulla scena mondiale, o anche semplicemente all’interno della Chiesa Cattolica: l’uomo che da cardinale aveva fatto – nel bene e (soprattutto) nel male – la storia  del XX secolo, da Papa l’ha attraversata senza lasciare traccia.

A parte qualche gaffe come la celebre lezione di Ratisbona e i viaggi con cui è riuscito a trasformare anche i grandi eventi (come le GMG e Assisi) in momenti di ordinaria amministrazione, sono davvero pochi i fatti memorabili.  Su tutti lo scandalo Vaticano, con cui il pontificato di Ratzinger ha dimostrato di essere totalmente inadeguato anche a gestire situazioni che per quello di Wojtyla sarebbero sembrate addirittura banali.

Se pensiamo ai misteri legati allo Ior, Emanuela Orlandi, il caso Calvi, l’attentato al papa, la morte di Luciani, l’omicidio-suicidio della guardia svizzera, siamo impressionati da come il Vaticano sia riuscito a mettere tutto sotto silenzio; e se poi pensiamo al maggiordomo del papa che si vende le sue carte private ci rendiamo conto che non solo sullo scenario internazionale, ma nemmeno dentro casa sua, papa Ratzinger è riuscito a tenere il controllo della situazione.

D’altra parte quella di Benedetto XVI è stata fin dall’inizio una figura debole e insignificante che – per non essere messa in ombra – si è circondata di figure ancora più deboli e insignificanti: sotto Wojtyla la Curia romana era gestita da personalità di grandissimo spessore: i segretari di Stato – prima Casaroli, poi Sodano – erano raffinatissimi diplomatici, il portavoce Joaquin Navaro-Valls un genio della comunicazione, il vicario di Roma Ruini un fine politico, per non parlare dello stesso Ratzinger. Wojtyla aveva un forte carisma e non aveva timore di circondarsi di figure carismatiche. Ratzinger invece è stato sempre diffidente e – per questo – ha chiamato al governo solo figure di sua strettissima fiducia, quasi tutti suoi ex collaboratori, inadeguati quanto e più di lui: come segretario di Stato ha scelto un teologo come Bertone, suo ex segretario in Congregazione: ottimo come vescovo, ma del tutto incapace sul fronte politico e diplomatico. E così tra Vallini, Lombardi, Levada pochi sono quelli che resteranno nella nostra memoria. Figure trasparenti, messe lì per non mettere un ombra un pontefice che un’ombra, in realtà, lo è sempre stato.

Per il resto, pochi gli atti significativi di questo pontificato, alcuni talmente raffinati da risultare invisibili, come la scelta di togliere la tiara (simbolo del potere temporale) dallo stemma pontificio e sostituirla con la mitra (simbolo religioso). Significativo, per carità, ma rispetto all’abolizione della sedia gestatoria o della tiara stessa  messe in atto da Giovanni Paolo I in appena un mese di regno, è un po’ pochino.

Memorabile, poi, resterà la riconciliazione-resa con i lefevriani e l’assurdo ripristino (facoltativo) della messa con il rito preconciliare.

Per il resto, è tutta una questione di stile, di vezzi e di moda: Ratzinger, come è noto, ha tirato fuori dai vecchi armadi vaticani paramenti e accessori caduti in disuso da cinquant’anni. Proverbiale la sua passione per i cappelli, a volte anche sinceramente ridicoli come il camauro, usato nel Rinascimento  e che oggi fa sembrare il Papa una sorta di parodia di Babbo Natale. Ma un’altra scelta significativa è stata quella di abbandonare il pastorale di Giovanni Paolo II per recuperare quello di Pio IX.

Insomma, in otto anni ci sono stati – sostanzialmente – pochi passetti indietro e qualche significativo in avanti: tra questi – proprio negli ultimi dodici mesi – la decisione di beatificare don Pino Puglisi, primo prete vittima della mafia e la nomina come suo successore alla Congregazione per la dottrina della fede di Muller: tedesco come lui ma amico della Teologia della Liberazione, proprio la dottrina contro cui Ratzinger si è battuto per tutta la vita.

Una scelta di grande apertura, subito “corretta” però con la mancata nomina a cardinale e la clamorosa esclusione dal Conclave di Muller, che l’incarico rende un vero e proprio “vice-papa”, insieme ad altre figure strategiche come il patriarca di Venezia Moraglia e Vincenzo Paglia, che avrebbe portato anche la Comunità di Sant’Egidio all’interno di un’elezione che vede quest’anno invece ben due esponenti di Comunione e Liberazione (Scola e Cafarra).

Un pontificato, quindi, vissuto sottotono, ma con un gran finale.

Se si riesce a guardare oltre le cospirazioni vaticane, oltre il vecchietto poverello che non ce la fa più, le dimissioni del Papa rappresentano una scelta storica capace di indicare davvero una strada nuova alla Chiesa.

Se la rinuncia del Papa ha turbato tanto gli animi e persino scatenato delle polemiche è perché il papato – così come è stato presentato dal medioevo a oggi – rappresenta un’incarnazione stessa di Cristo.

Un papa che si dimette, quindi, è come Cristo che scende dalla croce.

Ma il Papa non è il vicario di Cristo: il papa è il vescovo di Roma. Se dunque tutti i vescovi vanno in pensione a 75 anni e i cardinali ci vanno a 80, perché il Papa non può ritirarsi a 85 anni e diventare emerito come qualsiasi altro vescovo del mondo?

Le dimissioni di Ratzinger, da questo punto di vista, rappresentano non un motivo di turbamento, ma al contrario il completamento di una riforma avviata dal Concilio Vaticano II che riporta la gerarchia alla sua dimensione di servizio, liberandola dall’identità monarchica che ha assunto con il passare dei secoli.

Il papa – come i vescovi – svolge un ministero, un servizio, un mandato.  Ogni mandato ha un termine, solo i monarchi e i dittatori regnano a vita.

Da questo punto di vista le dimissioni di Ratzinger rappresentano un gesto profetico anche per un mondo – e tanto più per un paese come l’Italia – che ha totalmente smarrito lo spirito di servizio connnaturato nel potere.

Viviamo in un paese dove non si dimette nessuno. Nessuno. Non si dimettono gli indagati, non si dimettono gli sputtanati, non si dimettono i super-bolliti.

La poltrona, in Italia, è a vita: una volta che ti sei seduto non ti alzi più. E questo perché il potere è visto come una forma di carriera, e non di servizio.

Questo vale in tutte le categorie sociali: dai politici (ha fatto scalpore la regola dei due mandati proposta da Grillo perché è un concetto inaudito per qualsiasi partito) ai direttori dei Teatri Stabili, fino agli stessi ecclesiastici. Qualsiasi tipo di dirigente, in Italia, si inchioda alla poltrona. Alzarsi e lasciare il posto è visto come una forma di umiliazione, come una sconfitta, e non come il giusto coronamento di un mandato. Il concetto – espresso così onestamente e anche cristianamente  da Ratzinger – del “quello che dovevo fare l’ho fatto, adesso non ho più niente da aggiungere” è inaudito.

Da questo punto di vista, sì, potrebbe anche essere significativo – un segno dei tempi – il fatto che le sconvolgenti dimissioni dell’uomo più potente del mondo siano arrivate insieme allo “tsunami” che alle ultime elezioni ha spazzato via gran parte degli eterni parlamentari.

Se si è dimesso il Papa possiamo dimetterci tutti. Io, personalmente, l’ho fatto. Nei giorni scorsi ho lasciato l’incarico di Direttore artistico di un festival cinematografico internazionale. Nessuno mi ha chiesto né consigliato di farlo: semplicemente, dopo sette anni  ho capito di aver dato tutto quello che avevo da dare, di aver detto tutto ciò che avevo da dire, ho capito che era giusto lasciare spazio ad altre idee e altre personalità, ho capito che mi ero stancato e non si può continuare ad andare avanti solo per la soddisfazione di essere “direttore”. E faccio presente che ho 38 anni!

L’auspicio è quindi, che l’esempio di Ratzinger – oltre che da noi tutti – sia preso anche dai suoi successori: che il Papato da una monarchia assoluta incarnata per diritto divino si trasformi in un servizio e in un mandato. E indubbiamente, sotto questo profilo, aiuterebbe avere un papa americano, visto che il presidente degli Stati Uniti per certi versi è esattamente ciò che dovrebbe diventare il Papa: un monarca con pieni poteri, ma eletto democraticamente e con un mandato di 4 – massimo 8 anni.

E se poi, oltre ad essere americano, fosse pure francescano, aiuterebbe ancora di più, visto che nell’Ordine francescano anche colui che viene chiamato ad essere il capo mondiale, dopo aver svolto il suo servizio torna ad essere un frate come tutti gli altri, fratello tra fratelli: né santo, né padre né emerito.

 

 

 

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