LA NOSTRA AFRICA – diario di viaggio in Kenya

Giorno 129 febbraio 2024
Per arrivare in Kenya viaggiamo 18 ore e attraversiamo 3 continenti: partiamo da casa alle 6 di mattina, decolliamo alle 9, con Qatar Airways. Durante il viaggio inizio a leggere “La mia Africa” di Karen Blixen, perché Beata dice che visiteremo casa sua, ora museo.
Vista la vasta offerta filmica, decido anche di vedere L’ESORCISTA – Il Credente, l’ultimo capitolo della saga, dove torna – per la prima volta dopo 50 anni, la madre di Regan, protagonista del primo capitolo, e anche la stessa Linda Blair, anche se con un cameo di pochi secondi.
La partecipazione delle due protagoniste del primo capitolo per legittimare quest’ultimo è comunque molto forzata. Per il resto il film ha grandi ambizioni, in gran parte – per forza di cose – disattese.
Dopo aver conosciuto e intervistato padre Amorth – il più importante esorcista al mondo – penso che non riuscirò a non trovare cretino qualsiasi film sugli esorcismi, a partire dallo stesso “Esorcista”. Da “Il rito” a “L’esorcista del Papa”, promettono tutti grande innovazione e poi si rivelano puttanate pazzesche.
Devo dire che “Il credente” vola decisamente molto più in alto: la storia è molto complessa e articolata, si evitano il più possibile gli effettacci horror più banali, ma poi si finisce sempre ai vomitini e a epiloghi totalmente insensati e per nulla plausibili.
Ho la sfortuna di capitare con un italiano dietro le spalle, che mi prende a calci praticamente per tutto il viaggio, che per il resto è estremamente piacevole, anche se da mangiare arriva puntualmente quando mi addormento.
La cosa che mi colpisce di più è il classismo esasperato: la prima classe è praticamente un salotto, la seconda un carro bestiame.
Intorno alle 16 – ora locale (in Italia sono le 14) arriviamo a Doha. Giusto il tempo di comprare una bottiglia d’acqua e fare tutti i controlli. Perché – si – anche se dobbiamo solo cambiare aereo, ci fanno rifare tutti i controlli, e dobbiamo lasciare anche l’acqua che avevamo comprato a Fiumicino e quella che ci hanno dato in aereo.
Il Qatar è di una ricchezza impressionante. Ma (e questo lo sapevamo già dai mondiali) non vedi un locale lavorare. Tutti – e dico tutti i lavoratori sono stranieri, immigrati dall’India o dalle Filippine.
Nel secondo volo mi faccio un altro capitolo di Blixen, e ne approfitto per vedere – per la prima volta dopo 28 anni – “Mission: Impossibile”. Che mi piace assai.
All’arrivo – ovviamente – ci portiamo via, comme d’habitude, forchette, cuscini e coperte destinate alla Collezione di Collezioni.
Arrivati a Nairobi impressiona subito l’estrema semplicità e il buio.
Se decollando da Doha avevamo lasciato un’arcobaleno di colori e una città dalle mille luci che in confronto Roma è Collescipoli, quando atterriamo a Nairobi non vediamo quasi nulla: sotto è tutto immerso nelle tenebre.
Non sembra un aeroporto internazionale: passiamo i controlli sotto una sorta di tensostruttura, fuori ci sono pochisismi lampioni accesi e non ci sono negozi (se non un piccolo chiosco, fuori dall’aeroporto).
Mentre ci prepariamo a partire veniamo già aggrediti dalle zanzare, e iniziamo immediatamente a prendere il Malarone.
Devo dire, però, che rispetto all’India, l’aria è molto meno umida, e soprattutto non c’è quel caratteristico odore pesante che mi sarei aspettato dall’Africa.
L’appartamento dove siamo ospitati è super-tecnologico, con la porta iper-blindata che si chiude con una combinazione.
Ci mettiamo a letto che sono passate le tre di notte.
L’Africa è arrivata.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante aereo
Giorno 21 marzo 2024
Quando ci siamo messi in viaggio ero terrorizzato dal Kenya. Mi aspettavo povertà, inquinamento, criminalità, malattie, caldo. Caldo africano, ovviamente.
La prima cosa che mi colpisce di Nairobi, è l’estrema igiene, l’estrema sicurezza, la gentilezza di tutti, e il clima, che è semplicemente il clima ideale: né freddo né caldo. Stai in maglietta, e stai bene. Siamo vicini all’Equatore, quindi il giorno e la notte hanno quasi la stessa lunghezza tutto l’anno, e anche la differenza tra inverno ed estate non è così radicale come da noi.
Nello specifico, qui siamo in autunno inoltrato, diretti verso l’inverno – che va da giugno ad agosto. Il problema è che le scuole chiudono – come da noi – in quello stesso periodo. Quindi le vacanze, i kenyoti, non se le fanno certo al mare.
Non ci volevo venire, ma dopo meno di 24 ore già mi trasferirei in Kenya. Perché questo è proprio il mio posto ideale, a cominciare dalla calma che hanno tutti. Non esite fretta, non esiste il rispeto radicale di un orario. Qui tela devi prendere comoda per forza se no vuoi impazzire.
Quindi, dopo una pigra mattinata a casa della sposa, in cui ho ripreso la lettura del libro di Blixen.
Era a casa dei miei, sulla libreria della camera di mio fratello, proprio sopra al mio vecchio letto. Non so chi glielo abbia regalato, ma non credo nessuno lo avesse mai letto. Dentro però ci ho trovato una stella alpina secca, che probabilmente ci aveva messo dentro mia madre, e la cartolina di un concorso per vincere una vacanza in Kenya rispondendo a una serie di domande sul film.
Ho guardato quel libro per 38 anni, senza che mi venisse mai la voglia di leggerlo; confesso che non mi è mai venuta mai voglia nemmeno di vedere il film. Ma quando Beata mi ha detto che avremmo visto casa sua ho pensato che era venuto il momento. Così, il giorno prima della partenza, sono passato a casa e me lo sono portato via.
Il 4 capitolo me lo inizio proprio dove il libro è ambientato, nel giardino di fronte a casa di Karen Blixen.
Arrivarci, in realtà, non è stato semplicissimo. In Kenya hanno una burocrazia digitale complicatissima. Per entrare in un museo devi registrati su un sito che però non funziona quasi mai.
Dopo aver passato un’ora – in quattro – alla biglietteria cercando di inutilmente di registrarci (ti chiedono tutto, persino una foto da scattare sul momento), abbiamo preso una guida che (guarda caso) ha risolto il problema facendoci entrare con il suo profilo.
Già, perché i biglietti non sono nominali. Quindi tu, in realtà, non devi per forza registrarti. Solo trovare qualcuno registrato che compra i biglietti al posto tuo. Che è sempre uno del posto, ovviamente.
La Casa-Museo di Karen Blixen è un esempio dell’impatto che il cinema può avere nelle stesse storie che racconta.
Blixen aveva lasciato l’Africa – dopo circa quindici anni – nel 1931, e nel 1937 aveva scritto il libro.
A proposito, ho scoperto che tra le opere di questa scrittrice danese estreamamente ricca, emancipata e borghese (nel museo c’è anche una foto con Arthur Miller e Marilyn Monroe), c’è anche “Il pranzo di Babette” da cui è stato tratto il film preferito di papa Francesco.
Dopo la partenza della scrittrice, la casa e la fattoria hanno cambiato molti proprietari. Solo dopo il grande successo del film (che vinse 6 Oscar) si era acceso un interesse turistico.
Così, la stessa casa di produzione del film, insieme agli immigrati norvegesi in Kenya e al governo del Kenya, hanno unito le forze per trasformare la casa in un museo, che ha aperto nel 1991. Sono riusciti a ri-acquistare anche molti dei mobili originali, mentre diversi altri che si trovano ora all’interno della casa provengono dallo stesso set del film.
Potrebbe essere un'illustrazione raffigurante 2 persone e testo
Giorno 32 marzo 2024
E’ giunto il momento per cui siamo qui. Il matrimonio di Veronica, la mia sorella romena, che otto anni fa mi ha presentato la sua collega Beata, e che lavora all’ambasciata dell’Unione Europea a Nairobi.
La cerimonia è straordinariamente breve per essere una messa ortodossa: appena due ore.
E’ una liturgia multi culturale e multi linguistica. Celebra l’arcivescovo Demetrio, che è europeo, concelebrano dei preti ortodossi africani e anche un amico di Vero che è rumeno ma vive negli Stati Uniti e appartiene (se ho ben capito) alla chiesa ortodossa della Russia bianca (cioè di matrice russa ma indipendente dal Patriarcato di Mosca). Ad ogni modo districarsi in mezzo all’organizzazione della chiesa ortodossa nel mondo è un’impresa disperata: negli Stati Uniti, si complica ancora di più, visto che – come in tutto – gli americani moltiplicano all’ennesima potenza le contraddizioni presenti nel resto del mondo.
Ad ogni modo la cerimonia è coinvolgente e trascinante, romeno-africana, con l’incoronazione degli sposi, il lunghissimo scambio degli anelli, e il prete che – all’improvviso – diventa animatore della festa.
Quando, rivolgendosi all’assemblea, dice “alzatevi tutti. Tutti, voi che siete ancora seduti, lì: alzatevi!” penso che sia arrivato il momento più sacro: quello dell’eucarestia.
Invece no: è arrivato il momento del bacio degli sposi e dell’applauso.
Poi ci si sposta al pranzo, che vede il prete, animatore e deejay. Si mangia poco (di fatto un solo piatto) ma si canta e si balla fino al tramonto.
Io mi sono già preso il Mal d’Africa.
Giorno 43 marzo 2024
Per la mia generazione Africa è sinonimo di povertà. Quello che non è cambiato dall’epoca coloniale ai giorni nostri, è il complesso di superiorità che gli europei hanno nei confronti degli africani.
Prima li volevamo civilizzare, adesso li vogliamo aiutare. Ma continuiamo a considerarli un popolo inferiore. Con tutta la buona fede che ci mettiamo, non riusciamo a scendere dal piedistallo dal quale li guardiamo.
Invece, paradossalmente, la povertà – almeno quella che vediamo in televisione o al cinema – ancora non l’ho incontrata.
Ho incontrato invece tanta ricchezza. Probabilmente sono ancora chiuso in una bolla borghese, perché il 60% degli abitanti di Nairobi vive nelle baraccopoli (la più grande conta 180mila abitanti, quasi il doppio di Terni) ma resta il fatto che quello che ho visto finora di Nairobi, è l’opposto di quanto mi aspettassi.
E cioè pulita, accogliente, sicura, gentile. Ma soprattutto: civile.
Fino ad oggi ho sentito due volte suonare il clacson: ma la prima volta era in modo festoso, la seconda volta alla guida c’era una donna bianca.
Quanto alle zebre, poi, ne ho viste più al Parco Nazionale che per le strade del centro.
Sono rarissimi gli attraversamenti pedonali, perché non servono a niente. Se devi attraversare la strada, in qualsiasi punto ti trovi, la macchina si ferma e ti fa passare senza alcun problema.
Il traffico di Nairobi è esattamente l’opposto di quello di Roma. Qui c’è la Civiltà.
E non è l’unica lezione che dovremmo imparare dall’Africa.
A Nairobi vivono persone di 42 etnie diverse, ognuna con la sua storia, le sue tradizioni, i suoi abiti tipici, la sua religione, i tratti somatici. Tutti perfettamente integrati, senza ghetti, senza rivalità. Tra membri della stessa tribù parlano nella loro lingua, con quelli di etnia diversa parlano swhaili, che è la lingua franca. Con gli stranieri parlano in inglese.
Ogni keniota, quindi, parla almeno tre lingue. Per spostarsi si usa Uber. Uno degl autisti ha un rosario appeso: gli chiedo se è cattolico. “Lo sono stato, ma adesso sono pentecostale”. Un altro è Avventista, ma tiene appesi in macchina un’immagine della Madonna e un verso del Corano. Per far sentire a suo agio chiunque entri.
Insomma ad un’ Europa vittima individualismo esasperato e nazionalismo stupido l’Africa insegna l’integrazione tra popoli e religioni, la condivisione, la comunione sociale.
In Ucraina si sta trasformando una guerra tra due politici delinquenti in un conflitto etnico, tra due popoli fratelli che cercano in ogni modo di esasperare ciò che li divide.
In Africa, invece, c’è un’identità comune, che non è nemmeno nazionale, ma continentale. L’africano si sente soprattutto africano.
Tutto questo penso mentre passiamo la giornata al Parco Nazionale a fare i turisti. Io, francamente, mi sento molto stupido a girare in macchina per un grande giardino pubblico (da cui si vedono in realtà, in lontananza anche tutti i palazzi della metropoli), insieme a decina di altre macchine, tutti a cercare di vedere un leone o una giraffa con cui farsi un selfie.
L’orfanotrofio degli elefanti è un’esperienza più toccante, anche se altrettanto turistica. E alla fine ce le facciamo anche noi, le foto mentre accarezziamo il dolcissimo elefantino. Però si mi sento parecchio bimbominkia.
Sarà che davvero più che la Savana, quello che mi colpisce dell’Africa è l’umanità.
Più che i pigri rinoceronti, le giraffe lontane, i leoni annoiati, o le pittoresche (o pitturate) zebre (non riesco a credere che siano reali!) mi colpiscono i racconti dei kiguiu, dei camba e dei masai, che intervisto mentre Beata contratta l’acquisto di un souvenir.
Perché anche qui – come in India – la contrattazione è un obbligo sociale: non ci sono prezzi sui prodotti che ti vendono. E quando gli chiedi quanto costa ti rispondono: tu quanto mi vuoi dare?
E comincia una discussione che (nel nostro caso) può protrarsi anche per un’ora.
E alla fine la parola d’ordine è sempre: HAKUNA MATATA. Che è un po’ il corrispettivo di “Sti cazzi!”.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 6 persone e elefante
Giorno 5 4 marzo 2024
Siamo in missione speciale all’Università Tanganza per valutare future collaborazioni tra Roma e Nairobi.
Tangaza stata fondata ed è di proprietà delle congregazioni missionarie di praticamente tutti gli ordini religiosi presenti in Africa, dai tre ordini francescani (che almeno qui stanno insieme!) ai Comboniani.
Veniamo accolti dal Rettore, il Decano di Teologia e il Direttore dei progetti di Sviluppo, che è stato anche direttore del dipartimento del dialogo interreligioso.
Dopo la riunione formale, la parete alle nostre spalle si apre ed esce la sala da pranzo. Il pasto è semplice e frugale come tutti quelli che abbiamo consumato a Nairobi.
Una delle cose che mi piace di più, del Kenya, è che mangio poco e bene. Di fatto solo riso, verdure e un po’ di carne. Tendenzialmente una volta al giorno: e il grande miracolo è che non ho fame!
In questi giorni in Africa mi sto davvero disintossicando da tutto ciò che rende la mia vita pesante, stressante e obesa.
E’ la prima vera vacanza che faccio da cinque anni a questa parte. Non solo il primo vero viaggio dai tempi del Covid), ma anche la prima settimana in cui davvero stacco da tutto.
Non cazzeggio sul cellulare, non guardo la telelevisione, non dibatto – non commento, mon mangio pasta né salumi, e soprattutto non lavoro.
Viaggio, parlo, conosco, incontro, leggo: il romanzo di Karen Blixen non è particolarmente appassionante, perché di fatto non è un romanzo, ma un semplice libro di memorie, che segue in modo piuttosto disordinato il flusso di pensieri e di ricordi.
Leggerlo in Kenya, però, mi aiuta tantissimo a comprendere la realtà che mi circonda e le persone che incontro. E’ la guida ideale per qualcuno che non vuole essere un turista, ma un viaggiatore.
E’ molto significativo, ad esempio, il fatto che nel libro di Blixen non compare mai la parola “Kenya”. Si parla sempre e solo di Africa, e per un motivo molto semplice: il Kenya, ai tempi di Blixen, non esisteva. A quei tempi si chiamava “Africa orientale britannica”. Ma anche adesso, tutto sommato, non esiste più di tanto.
Per anni mi sentivo quasi in colpa a parlare di “Africa” piuttosto che dei singoli paesi – la gran parte dei quali conosciamo solo di nome (e di alcuni dei quali la maggior parte di noi forse ignora anche l’esistenza stessa).
Ma la verità è che il nazionalismo, in Africa, non c’è come in Europa. Non a caso le guerre – semmai – sono tra tribù, e quasi sempre aizzate dall’Europa. Il popolo africano si sente, in primis, africano.
Un congolese in Kenya è come un milanese a Roma. E’ uno che viene da un’altra regione, non uno straniero. D’altra parte il nazionalismo si nutre soprattutto di un’appartenenza etnica, linguistica e storica, e come già detto questo
in Kenya non esiste perché convivono tribù di 42 etnie diverse, ognuna con una lingua e una storia diversa.
Non a caso dei tre dirigenti universitari che incontriamo, solo uno – il rettore – è kenyota: il direttore dello sviluppo viene dal Congo mentre il decano di teologia è dello Zambia.
E’ lui che, dopo pranzo, ci guida alla scoperta dell’Università: visitiamo tutti gli uffici e tutte le aule, il grande auditorium, le due enormi biblioteche, incontriamo la responsabile della comunicazione e partecipiamo ad una lezione di italiano, tenuta da Noemi, una ragazza di Caserta che si è trasferita in Kenya due anni fa.
La cappella dell’università è semplicemente la Chiesa più bella che abbia mai visto. Totalmente in legno, è dominata da un crocifisso con un albero al posto della croce. Un posto dove non può non venirti voglia di pregare.
L’accoglienza è incredibile. Il Decano – don Jude, che parla anche benissimo l’italiano – ci regala caramelle, acqua e biscotti e siccome non riusciamo a prenotare un autista Uber, ci accompagna lui stesso alla nostra destinazione seguente.
Mentre scrivo mi sto sentendo male guardando – dalla terrazza del nostro appartamento – un operaio che sta dipingendo le pareti del palazzo di fronte, in bilico su un impalcatura senza alcun tipo di imbragatura che ne garantisca la sicurezza. Se scivola muore.
“Il Kenya è un paese pieno di contraddizioni” mi ha detto Noemi.
A fronte delle norme di igiene (tutti i locali pubblici hanno un lavandino con il sapone, nel pub addirittura ci hanno portato delle pasticche che imbevute di acqua calda si gonfiano fino a trasformarsi in salviette umidificate) ei di sicurezza (ti fanno il metal detector anche al risotorante, se passi con il rosso rischi l’arresto) la sicurezza sul lavoro, evidentemente, non è altrettanto accurata.
A Bomas dovremmo assistere a danze tipiche e visitare i Tucul – le proverbiali abitazioni africane. Ma la visita la museo si trasforma in un incubo.
E’ il primo impatto davvero negativo con l’Africa. Arriviamo tardi – accolti da un branco di babbuini – le danze sono già finite, ma possiamo visitare i tucul che – personalmente – sono la cosa che mi interessa di più. Ci fermiamo a guardare – sul prato – i fagoceri che brucano quando un uomo in divisa ci dice che lo spettacolo è finito ma possiamo visitare i tucul e ci porta da un’altra guida che ci dice che è tardi, quindi possiamo intanto visitare i tucul e poi pagheremo all’uscita.
Ci accompagna all’ingresso che però – scopriremo più tardi – è in realtà l’uscita, dove ci sono tutte le bancarelle dei venditori di souvenir. I quali ci bloccano, di fatto costringendoci a comprare qualcosa da ognuno di loro.
Dopo aver superato il quarto venditore perdiamo la pazienza e ci dirigiamo verso il percorso espositivo, ma veniamo immediatamente bloccati da un tizio con una radiolina che ci chiede i biglietti. Gli spieghiamo che sono quelli della sicurezza che ci hanno indirizzato così: lui dice “sono io la sicurezza”. Non ha uniforme né tesserino, ma di fatto ci costringe a tornare indietro: nel frattempo comincia a diluviare. Sotto la pioggia continua il dibattito con il tizio – che dice di chiamarsi Suzuki. E che dice di essere anche un autista Uber, e quindi può accompagnarci a casa. Gli diciamo che abbiamo già un amico che ci viene a prendere, poi ci spinge verso il ristorante.
Incontriamo anche le altre due guardie che ci dicono: “Non avete fatto la visita?”, Beata gli risponde: “Questo gentiluomo ce lo ha impedito”. Mi aspetto un chiarimento, invece, ognuno va per conto suo. Le guardie non chiedono niente a Suzuki, Suzuki non dice niente alle guardie.
Noi ci rifugiamo nel bar-ristorante – che è deserto – e ordiniamo due birre cercando di prenotare una macchina Uber, ma di fatto due tentativi vanno a vuoto. Nel ristorante ci siamo solo noi due, e un gruppo di neri che sembrano essere più membri dello staff che clienti.
Ogni tanto passa qualcuno che ci guarda.
Ormai la paranoia ha raggiunto livelli altissimi. Ci siamo convinti che ci stiano preparando la festa, perché il comportamento di tutti è più che sospetto. Una volta prenotato il secondo Uber fuggiamo letteralmente dal parco e ci dirigiamo verso l’uscita, prima che arrivi qualcun altro a dirci o a fare non so cosa.
Uber non arriva però. Le guardie all’ingresso del parco ci invitano a sederci. Poi parlano al telefono con qualcuno. Beata cerca di chiamare al telefono l’autista di Uber per sapere che fine ha fatto. Il tizio risponde ma non si capisce dove diavolo sia, in un minuto il credito telefonico finisce. Io attivo la connessione dati per permettere a Beata di chiamarlo con Whattsapp. La connessione non funziona, in compenso in appena 5 minuti di tentativo si mangia tutti i 40 euro presenti sul mio telefono.
Non abbiamo alcuna possibilità di usare il telefono nemmeno, eventualmente, per chiamare soccorsi. Intanto è diventato buio, le guardie continuano a guardarci. Decidiamo di tornare al centro per attaccarci alla wifi.
Cerchiamo di nasconderci, di non farci vedere dallo staff, mentre – vicino al ristorante – Beata si riconnette al wi-fi e chiama tramite whattsapp l’autista. Che ancora non si è capito che fine ha fatto.
Dopo altri dieci minuti di panico, l’autista si presenta. La paranoia, però, non è finita. Il ritardo dell’autista – che all’ingresso ha sicuramente parlato con le guardie – ci rende inquieti.
Passiamo di fronte alla baraccopoli di Kibera. Mi piacerebbe tanto visitarla, in fondo quel poco che so del Kenya lo devo anche ad Alex Zanotelli, che ha vissuto per anni nella baraccopoli di Korogocho.
Ma mi hanno detto che le slum sono off limits per i bianchi, se non sono accompagnati da una guardia del corpo. “No solo ti derubano e ti rapinano, ma ti sequestrano.
Beata, sempre usando la wifi, ha anche ricaricato il suo telefono, e adesso cerca di usare la connessione dati per verificare – con google maps – se l’autista ci sta portando davvero a casa, o chissà dove.
Io non riconosco le strade, la connessione dati va e viene e il panico continua per altri venti minuti. Finché, finalmente, non vediamo il cancello del Diamond Place, il residence in cui siamo ospiti.
Arrivati a casa decidiamo subito di annullare il safari di due giorni che dovevamo iniziare – da soli – il giorno dopo.
In realtà tutto il complotto di cui ci siamo sentiti vittime è stato, probabilmente, dettato dalla paranoia.
Nessuno ha mai pensato di rapirci o derubarci.
Semplicemente, Suzuki e le guardie si erano messi d’accordo per farci spennare il più possibile anche se era troppo tardi per accedere al museo.
La lezione, però, l’abbiamo imparata: se vuoi goderti la vacanza in Kenya da solo è meglio che non giri.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona e persona che studia
Giorno 6 – 5 marzo 2024
E’ stata la giornata più lunga di questo soggiorno, durata tanto quanto il viaggio da Roma a Nairobi: 18 ore in giro per il Kenya.
Partenza alle 5 di mattina, per un Safari che definire “vero” è senza dubbio eccessivo, ma almeno questa volta di troviamo davvero nella Savana e non in un parco e all’orizzonte vediamo il Kilimangiaro, non i palazzi della metropoli.
L’altro giorno mi sembrava di stare davvero allo Zoo, ma nelle gabbie ci stavamo noi, chiusi in macchina a farci guardare dagli animali che passeggiavano.
Stavolta ci troviamo davvero in mezzo alla natura. Gli incontri con le bestie sono più rari ma assai più incantevoli.
Prima ancora di cominciare quest’avventura, però, dopo 4 ore di viaggio, c’è una tappa obbligata all’ennesimo negozio di souvenir. E io comincio a perdere la pazienza, perché di fatto siamo costretti a vagare per più di un’ora per questo grande bazar, dove i venditori ti assalgono come mosche: “Hello, my friend” e prendi il cestino, che ne pensi di questo, quanto mi offri per questo. I prezzi – dice Vero – sono almeno quattro volte il normale.
Io resto affascinato dall’architettura dell’edificio, costruito con tronchi d’albero e tende, dal retrobottega in lamiera dove artigiani-operai scolpiscono le statue vendute nel negozio, ma non ce la faccio più a fare la parte del pollo da spennare.
Mentre giro impaziente facendo foto e riprese, arriva l’italiano di turno. L’italiano lo riconosci subito perché non parla inglese e fa sempre il simpatico, trattando tutti come vecchi amici.
Il tipo, nello specifico, viene da Napoli e dice di essere stato già il giorno prima al bazar, e quindi esige almeno qualche tre x due.
Quando finalmente arriviamo all’ingresso del Parco Nazionale, con la scusa dell’ennesima sosta per andare in bagno, veniamo dati in pasto ad un gruppo di masai estremamente aggressivi che ti propinano gli stessi gadget che hai già comprato per tre giorni consecutivi.
Devo dire che non avevo mai trovato un atteggiamento così aggressivo nei confronti dei turisti, quasi ricattatorio. Tu non puoi comprare: tu devi comprare, perché sei solo un pollo da spennare, e ovunque vai devi lasciarti dietro una scia di soldi.
Anche se poi, a rifletterci, non posso che dare loro ragione. Perché non dovrebbero spennarci? Siamo ricchi e stiamo qui per spendere soldi. Se sei disposto a comprarti una cosa completamente inutile, perché non dovresti pagarla cara?
Sono i beni di prima necessità, quelli su cui non si deve lucrare, ma sui souvenir – tanto più souvenire come questi, tutti fatti a mano da artigiani – perché non dovresti lasciare un sacco di soldi?
Quello che mi rompe davvero, è che ogni giorno che passa compro sempre di meno, e alla fine ho speso molti più soldi dove me li sarei potuti risparmiare, e molti meno là dove valeva la pena di spenderli, come al villaggio Masai, ad esempio.
La mattinata nella Savana è bellissima e rigenerante, i fenicotteri, gli elefanti, le zebre, uno spettacolo difficile da dimenticare.
Dopo la pausa pranzo in un rifugio di montagna, è la volta della visita al villaggio Masai, che è forse l’esperienza più forte di questo viaggio.
I Masai, in Kenya, li trovi ovunque, ma di solito li trovi vestiti nei loro abiti tradizionali esattamente come a Roma trovi i centurioni al Colosseo: per farsi fotografare a pagamento, o per venderti souvenir.
Per il resto, i masai sono una delle 42 tribù del Kenya, e se non telo dicono difficilmente li puoi distinguere.
Al villaggio Masai, invece, la storia si è fermata. Incontriamo una famiglia che vive ancora come vivevano i suoi antenati: in capanne di fango, in cui vivono per massimo dieci anni, per poi rimettersi in viaggio.
Erano un popolo di pastori e guerrieri, oggi sono un popolo di pastori e venditori di souvenir. Anche qui, dopo averci chiesto una sorta di “biglietto di ingresso” (800 scellini a persona, circa 5 euro) ci portano nel loro piccolo mercatino dove fabbricano e vendono braccialetti e souvenir.
Più che di un bazar, in realtà, si tratta semplicemente di un prato, uno spiazzo dietro le capanne, dove hanno messo per terra dei tappeti con sopra la merce. Ma devo dire che sono assai meno aggressivi degli altri venditori, infatti alla fine torno a casa solo con un braccialetto che pago appena 500 scellini. Il tizio che me lo vende vorrebbe rifilarmi anche dei legnetti per accendere il fuoco, con cui poco prima mi ha fatto una dimostrazione. Ma io lo so che non ci riuscirò mai, ad accendere il fuoco come fanno loro, e quindi glielo lascio e mi faccio dare il resto.
Sono così disilluso da questo soggiorno in Kenya – così organizzato, così commerciale – che sarei tentato di pensare che pure questo villaggio Masai sia finto, e che questi presunti masai che danzano e cantano per noi, siano solo figuranti.
Capisco che è tutto vero perché ci fanno visitare una sola abitazione, e invece di capanne lì ce ne saranno almeno quindici, e fuori delle capanne ci sono bambini piccoli, donne intente a lavorare, insomma sì, questi sono masai veri.
Le case sono prive di qualsiasi illuminazione, per entrarci e fotografarle dobbiamo usare le torce del telefono – vivono completamente senza elettricità, ma in compenso hanno l’acqua: il villaggio è dominato da una grande cisterna che – mi dicono – alimenta tutti i villaggi della zona.
“Abbiamo anche la scuola, qui vicino” mi spiega uno di loro.
Le case sono minuscole e poverissime, ma bene organizzate, con stanze separate: “Qui cuciniamo, qui dormono i bambini, qui dormono papà e mamma”.
Il capo del viallggio ha 94 anni, ma non si fa vedere. E’ il figlio ad accoglierci e a guidarci.
Farci amicizia è molto facile. Uno quando gli dico che sono italiano inizia a parlare nella nostra lingua: “Un giorno verrò a Roma!” mi dice.
Un altro si innamora del mio cappello e mi chiede se gielo faccio provare. Glielo dò, si fa fotografare e me lo restituisce. “No, adesso è tuo!” gli dico. Ed è felicissimo. Un altro allora fa: “E io?”. Allora Beata va a prendere il suo e glielo regala.
Un altro ragazzo mi mostra con orgoglio il suo pugnale, che usa per tagliare il legno. La custodia e la cintura sono di pelle di mucca, così come le “coperte” su cui dormono.
Tornando verso casa leggo un capitolo dle libro di Blixen, in cui spiega anche la differenza di kikuiu e masai.
“E’ impossibile farsi odiare o amare dai kikuiu perché qualsiasi cosa tu faccia, nel bene o nel male, loro la considerano parte della natura. I masai, invece, provano rancore”.
Ma, si direbbe, anche gratitudine.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 4 persone

Giorno 7
6 marzo 2024
Oggi era prevista una visita ad un monastero ortodosso, ma stavolta persino Beata ed esausta e decidiamo di prenderci un giorno di riposo, di completa nullafacenza.
Dormo fino a mezzogiorno e mezza. Ma non è tempo perso, perché il mio inconscio è estreamamente produttivo. Qui in Africa, poi, sogno anche se dormo dieci secondi.
Dunque stanotte ho sognato davvero di tutto. Alcuni capitoli di questo lungo sogno non li posso trascrivere, ma almeno l’incontro con Dario Argento lo devo raccontare.
Mi trovo in un salotto in compagnia di intellettuali estremamente borghesi, e c’è anche lui, sdraiato su un letto che sorseggia un bicchiere di vino, o forse di birra.
Io resisto per un po’, poi gli dico: “Senti, io spero che tu potrai apprezzare la mia sincerità…” e lui mi guarda già con occhi da assassino.
“Secondo me Profondo Rosso è un capolavoro, ma la maggior parte dei film che hai fatto, a partire da Suspiria, te lo devo dire, sono delle…”
Non riesco a finire la frase perché Argento si alza di scatto e mi lancia il vino sulla faccia. Io non la prendo benissimo, e gli tiro un cazzotto sulla faccia. Quello crolla a terra subito, e quando è sdraiato – mentre io sto già per chiedere soccorsi – la testa si apre ed esce tutta una roba che non so se è il cervello o un alieno.
Vista la piega che sta prendendo il sogno, decido di alzarmi.
Il resto della mattinata lo passo – per la prima volta – al computer, rispondendo a messaggi, svuotando una scheda sd, e scrivendo le memorie di ieri, mentre osservo un operaio lavorare su un impalcatura, in bilico sui tubi, senza alcun tipo di protezione.
Il resto della giornata lo passo a casa a preparare il comunicato stampa di StraValentino.
Di fatto l’unica uscita – piuttosto breve – è una sortita al supermercato.
Eppure anche passeggiare per le stade di Nairobi osservando la gente e le insegne è estremamente interessante e istruttivo.
Così come lo è stato – ieri – il viaggio di ritorno.
Tornando verso casa, abbiamo visto la scuola di cui mi aveva parlato il masai. La scuola che, secondo lui, stava “vicino” al loro villaggio, l’abbiamo incontrata dopo almeno venti minuti – mezz’ora di macchina.
E a parte che baracche con scritto “Hotel”, e i tantissimi e affollati mercatini che si incontrano, quello che mi colpisce di più, è vedere – sul ciglio di quelle che potremmo definire “superstrade” – gente, isolata, che cammina.
I primi giorni mi chiedevo cosa facessero queste persone, che camminano da sole in mezzo alla campagna, sul ciglio della strada.
La risposta, in realtà, è semplice. Ed è arrivata – lampante – quando, tra il villaggio masai e la scuola, ho visto decine di bambini camminare anch’essi, tranqulli, sul ciglio della strada.
Che cosa fanno? E’ ovvio: vanno. Vanno da una parte all’altra. Semplicemente, camminano a piedi.
Perché la maggior parte degli africani, anche per andare da un villaggio all’altro, o dalla chiesa al villaggio, o dalla città al villaggio, non si sposta in macchina, in autobus, in moto in bicicletta, ma cammina.
Questa cosa dei bambini che camminano anche per dieci ore per andare a scuola, l’avevo sentita dire tante volte dai missionari, ma sempre in tono pietistico. Invece ad osservarla con i miei occhi mi sembra una cosa normalissima.
Certo è inconcepibile in una società in cui i bambini non vengono lasciati soli nemmeno per fare tre metri. Inconcebile camminare per ore, quando già a dieci anni hai un’agenda pienissima tra palestra, calcio, psicologo e playstation.
In Europa educhiamo i bambini alla frustrazione e all’esaurimento nervoso. E pensiamo che i poverini siano quelli africani, che vanno a scuola a piedi.
La gente si stupisce quando dico che vado da Trastevere e Termini a piedi. Quarantacinque minuti circa. Perché noi siamo abituati a prendere la macchina anche per andare alla tabaccheria sotto casa. Così ci sembra qualcosa di incivile che ci sia gente che cammina tutto il giorno.
Ma voi pensate che sia più normale qualcuno che per andare da una parte all’altra va a piedi, o qualcuno che prende la macchina per andare in palestra e spendere 100 euro al mese per correre sul tapis-roulant?
La verità è che il pietismo con cui vogliamo aiutare l’Africa, è solo l’altra faccia del razzismo con cui vogliamo civilizzarla.
Siamo una società malata, che vuole contagiare tutto il mondo.
Il modello occidentale, fatto di consumismo, di diritti senza doveri, di individualismo esasperato, sta crollando, per questo siamo in guerra.
Perché quando con le buone non si ottengono più risultati, bisogna usare la forza.
Il conflitto in Ucraina e quello a Gaza – ormai credo che sia chiaro a tutti – sono due fronti della stessa guerra: la guerra che l’Europa e le sue colonie stanno facendo all’Asia per mantenere il proprio dominio economico, culturale e politico.
Allora la cosa più bella dell’Africa è vedere che esiste ancora un altro modello. La seduzione dell’Occidente – che porta tanti giovani a rischiare la vita per raggiungere Lampedusa – non è riuscita ancora a schiacciare completamente la cultura africana.
E’ un mondo colorato e artigianale quello in cui mi ritrovo appena varco la porta del Diamond Place.
E per inciso, non sto parlando dei tuniconi dai colori sgargianti.
Ecco, un’altra cosa che ho notato, è che da quando sono arrivato a Nairobi non ho visto nessuno – e dico proprio nessuno – indossare quei vestiti tradizionali, che vedi spesso, invece, ostentare dagli immigrati in Italia.
Non ho ancora capito la ragione: all’inizio ho pensato che fosse un modo per ostentare la propria identità, come noi italiani che all’estero parliamo di pasta e pizza o cantiamo Modugno, Cotugno e O’ Sole mio. Oggi una vetrina mi ha fatto pensare che – più semplicemente – quegli abiti siano tipici dell’Africa occidentale, e non di quella orientale.
Ma non credo che questo c’entri con il conformismo al modello occidentale. Il look delle donne africane, ad esempio, è molto diverso da quelle europee: a cominciare dai capelli.
Da quando la capigliatura “afro” non va più di moda – ovvero dagli anni ’80 – non trovi un africano capellone. I maschi hanno quasi tutti i capelli rasati o cortissimi, le donne spesso li portano cortissimi, ma la gran parte ha quelle treccine che dai noi seducono soprattutto certe ragazze fricchettone, e che qui invece sono la normalità, anche se l’abuso della piastra lo vedi in molte ragazze che sfoggiano capelli lunghi e liscissimi.
La caratteristica principale della donna africana, è il sedere enorme. E quindi anche tutti i manichini dei negozi, anche quando sono bianchi, hanno tutti il posteriore particolarmente sviluppato.
C’è bisogno di aggiungere che le donne kenyote sono bellissime e che non ho trovato un solo kenyota obeso o anche solo sovrappeso?
E’ raro trovare nei taxi o nei locali pubblici musica occidentale: di solito si sentono sempre canti africani, di vario genere, ma sempre bellissimi.
I taxi non ci vedono in giro, perché si usa moltissimo Uber, i Tuc Tuc ci sono anche qui, ma a Nairobi se ne vedono pochissimo, mentre è estremamente diffuso il moto-taxi. Motociclisti che trasportano passeggeri.
Quanto alle moto private, come in India è facile vedere con sopra anche tre persone.
Gli autobus di linea non ci sono, o almeno non hanno una livrea comune: ogni autobus che passa è diverso dall’altro, e sono tutti coloratissimi. Spesso recano messaggi religiosi: sul serbatoio di una macchina c’era scritto “Jesus loves you”.
In assenza di una religione dominante, il Kenya è sicuramente un paese pieno di religione: si trovano ovunque chiese di varie confessioni, moschee, ma anche insegne e murales inneggianti a Dio e a Gesù.
Un’altra cosa che mi ha colpito, è vedere i pali della rete elettrica in legno, realizzati usando tronchi di albero, e le insegne pubblicitarie dipinte a mano.
Oggi proprio mentre camminavamo su una striscia di fango che sostituiva il marciapiede, ci siamo imbattuti in un ragazzo che stava dipingendo un’insegna pubblicitaria.
Noi abbiamo gli attacchini, loro hanno autentici artisti che dipingono a mano scritte, disegni e persino i loghi dei social.
Chi, allora, sarebbe il più ricco, evoluto e civile?
Potrebbe essere un'immagine raffigurante testo
Ultimo giorno – 7 marzo 2024
L’ultimo giorno, in realtà, ne dura due. Perchè è iniziato la mattina del 7 marzo e si è concluso la notte dell’8.
Dopo il giorno “di recupero”, passato quasi tutto a casa, l’ultimo giorno è un gran finale, particolarmente intenso.
Inizia con la visita alla scuola ortodossa di Nairobi. Qui incontriamo i bambini delle elementari, poi ci dividiamo: le donne vanno a distribuire gli assorbenti alle ragazze, gli uomini visitano il Seminario ortodosso.
Dei bambini non dirò nulla. Perché se ne fa fin troppa di retorica sui bambini africani. E io non sopporto la retorica. Però non posso nascondere che si sia trattato di uno degli incontri più belli di questo viaggio.
La visita al seminario è senza dubbio interessante: nell’ufficio del rettore trovo le foto e i gagliardetti dell’Università Tanganza, a riprova della dimensione ecumenica che si respira in Kenya tra le chiese di diverse confessioni cristiane.
“Collaboriamo molto con i cattolici” mi dice il Rettore. E mi spiega che la Chiesa ortodossa del Kenya dipende dal Patriarcato di Alessandria d’Egitto, che copre tutta l’Africa e che – come ben so – è uno dei più antichi in assoluto.
Erano cinque, i patriarcati della Chiesa originaria: Gerusalemme, Alessandria, Roma, Antiochia e Costantinopoli.
E’ stata la conquista islamica di Gerusalemme e Alessandria e la rovina di Antiochia a generare la rivalità tra i due patriarcati superstiti sfociata nello Scisma d’oriente che ha diviso la Chiesa di Roma da quella di Costantinopoli.
Poi la stessa Costantinopoli è diventata islamica perdendo a sua volta importanza ed entrando così in concorrenza con il più recente – ma decisamente più grande e potente – patriarcato di Mosca.
Oggi la situazione della Chiesa ortodossa è diventata complicatissima.
Dal 2018 – con la nascita del Patriarcato di Kiev -è nato un nuovo scisma nella Chiesa ortodossa, perché Costantinopoli ha riconosciuto l’autonomia dell’Ucraina, mentre Mosca – ovviamente – no. Così ora Mosca e Costantinopoli non sono in comunione.
Poi, sin dall’epoca comunista, esiste un patrarcato russo alternativo – detto dei “russi bianchi” – che ha molti fedeli in America.
Di solito, poi, la chiesa ortodossa funziona un po’ come l’Islam, cioè essendo nazionale, gli emigrati continuano a seguire il proprio patriarca. Per dire, i rumeni italiani, stanno sotto il patriarca di Bucarest; ma i fedeli ortodossi che non vengono da un paese ortodosso (come i belgi) rispondono direttamente al patriarca di Costantinopoli.
Ora Dio solo sa come, i rumeni che vivono in America – come i nostri amici Florin e Madalina – non rispondono né alla chiesa rumena né al patriarca di Costantipoli, ma alla chiesa russa bianca, che peraltro non ha nemmeno un patriarca.
“Ma insomma un russo che vive in Afria – chiedo – può venire a messa da voi o no?”
“Tutti queste divisioni fanno parte della politica – mi risponde il rettore – la spiritualità è un’altra cosa”.
Insomma qui nessuno nega la comunione a nessuno. E’ più una questione di gerarchie, sinodi, eccetera.
Dopo aver visto gli uffici, la cappella e la grande biblioteca, visitiamo anche il dormitorio (ogni letto ha una zanzariera) e le aule, fermandoci alla lezione di musica.
Nell’aula c’è un vecchio pianoforte scassato che sembra uscito da un film western e che – intuisco – non funziona da un bel po’ ma gli alunni ci fanno ascoltare dei bellissimi cori. E mentre li ascoltiamo ci raggiungono le ragazze.
Sulla strada del ritorno Beata mi racconta che hanno regalato gli assorbenti alle ragazze della scuola, perché non possono permetterseli e per questo – quando hanno il ciclo – non vanno a scuola.
Intanto leggo sui social che in Italia sta spopolando una nuova serie televisiva – “Antonia” – incentrata sull’edometriosi.
Da noi le donne vanno dallo psicoterapeuta per i dolori mestruali mentre in Africa non hanno nemmeno gli assorbenti. La cosa mi suscita qualche riflessione.
La tappa successiva è il teatro della nostra disavventura di due giorni fa: Bomas.
Appena arrivati veniamo catapultati in un grande salone affollato da una scolaresca, che come ci vede inizia a salutarci e a festeggiarci.
Poi arriva lo spettacolo: due ore due di danze e musiche tradizionali. Praticamente ogni tribù del Kenye mostra i suoi costumi, la sua musica, la sua danza.
Spettacolo impareggiabile, anche perché gli stessi spettatori vengono coinvolti, chiamati sul palco a danzare con i ballerini.
Va detto, però, che solo una ragazza bianca (fidanzata con un nero) ha il coraggio di salire e cimientarsi con le danze africane: gli altri sono tutti neri, africani o di origine africana.
A un certo punto ho capito anche da dove Lorenzo Jovanotti Cherubini ha ripreso il suo Ombelico del mondo. Una delle danze presentate ha infatti lo stesso uso dei tamburi e del fischietto della canzone.
Chiuse le danze andiamo a visitare – finalmente – i famosi tucul, ovvero le tipiche abitazioni africane. Quelle dove vivevano le varie tribù dell’Africa e dove – ancora oggi – vivono alcuni indigeni all’interno delle riserve nei parchi nazionali.
E’ incredibile come ogni tribù abbia uno stile e un’architettura diversa.
Chi le case le fa di fango, chi di paglia, chi di legno – come i kikuyu, che sono l’etnia maggioritaria.
Ad accomunarle tutte è la forma di circolare, la grande semplicità dell’interno (dove c’è sempre un letto fatto di legno o di canne, uno spazio per il fuoco, e vari ambienti separati) e la gerarchia. La casa più grande è sempre del capo famiglia, poi c’è la casa della prima moglie, della seconda, della terza, del figlio sposato, del figlio non sposato, della suocera. E i rispettivi granai e pollai.
Quando arriviamo allo spazio dedicato ai masai possiamo confrontare questa riproduzione con il villaggio vero, che abbiamo visitato due giorni fa.
L’unica sostanziale differenza sta nei tetti delle capanne, per il resto è tutto molto fedele.
Se all’ingresso avevamo fatto amicizia con alcuni fagoceri che brucavano l’erba (animali estremamente mansueti) al ritorno incrociamo un gruppo di babuini, po diretti a casa per un cena frugale, prima di tornare a casa per fare i bagagli.
Intorno alle 22.30 – sempre con Uber – ci dirigiamo all’aeroporto. Anche se costa tutto di più ed è assai meno artiginale, confesso che comprare cose qui mi fa sentire più a mio agio, perché non sei costretto a trattare un’ora. E prima di imbarcarci di assicuro una coperta Masai.
Anche stavolta, per tornare a casa, attraversiamo tre continienti, facendo scalo a Doha, in Qatar.
Mi immergo nella lettura di Karen Blixen e inizio a vedere “Capitan America: Civil War” solo per devozione nei confornti di Spider-Man. Paradossalmente, però, il film è nel catalogo del primo aereo, ma non in quello del secondo: opto quindi per “Brian & Charles”, un piccolo gioiello inglese. Una commedia piena di poesia su uno strambo inventore che crea un robot.
La giornata iniziata il 7 marzo alle 9 si conclude l’8 marzo alle 15.30, quando finalmente siamo a casa.
Il viaggio in Africa, però, non è ancora finito: mi mancano ancora molte pagine di “La mia Africa” di Karen Blixen dal quale – ormai – non riesco più a staccarmi.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona e il seguente testo "JUSSY HOTEL OFFER @350=/"
EPILOGO

16 marzo 2024

“La mia Africa” di Karen Blixen giaceva da 38 anni sulla libreria sopra al mio vecchio letto, nella camera di mio fratello.

E’ un letto di quelli che si apre e si chiude, tipo ponte levatoio. Quel tipo di architetture mobili per risparmiare spazio rese famose dalla celebre scena del “taaac” di “Ragazzo di campagna” con Renato Pozzetto.

La cameretta che avevamo in via della Biblioteca – dove nato – era molto piccola, quindi il mio letto, di giorno il mio letto veniva chiuso e la scrivania veniva aperta, e di notte il letto veniva aperto e la scrivania chiusa.

Quando ci siamo trasferiti in via Battisti, io ho avuto una cameretta tutta mia, anche se ci ho messo anni per riuscire a dormire da solo. Ma quando mi sono trasferito definitivamente lì, in camera di Daniele Casali la scrivania è rimasta sempre aperta e il mio letto sempre chiuso. Ma io, come dire, ho continuato a frequentarlo, in qualche modo, quindi la libreria là sopra la conosco bene, così come i libri che ci sonno deposti, come “Masada” di Bruno Tacconi (che improvvisamente ha rappresentato qualcosa – quando sono andato in Palestina) e “La mia Africa” di Karen Blixen.

Non mi era mai passato per la testa di leggerlo, come non mi è mai passato per la testa di vedere il film, che si annuncia come un polpettone romantico. Quando però Beata Golenska mi ha detto che in Kenya avremmo visitato la casa di Karen Blixen, allora ho deciso di leggerlo durante il viaggio in Africa.

Non so chi l’ha regalato ai miei, nel 1986, ma è certo che nessuno l’ha mai letto. Probabilmente nemmeno chi lo ha comprato. Perché “La mia Africa” è il classico libro da regalare, e non da leggere. Un po’ come i romanzi di Umberto Eco.

D’altra parte ci sono tre modi per regalare un libro: il primo è condividere un’eperienza, quindi regalare un libro hai letto e che ti è piaciuto. Il secondo è fare un regalo mirato, donando un libro che pensi possa interessare al destinatario. Il terzo è quello di regalare un libro di moda.

E nel 1986 “La mia Africa” – con il film che vantava i due grandi divi del momento e aveva vinto 7 Oscar – era senza dubbio il più classico libro da regalare ma da non leggere.

Che il regalo fosse poco ispirato lo testimonia il fatto che se il prezzo è stato cancellato, non c’è alcuna dedica e addirittura c’è rimasta la cartolina di un concorso per vincere un viaggio in Kenya.

Mia madre lo usò solo per conservare una stella alpina secca. Per il resto, fino a due settimane fa il libro non si era mosso dal suo scaffale.

Il fatto che 38 anni dopo, quel regalo così poco utile sia diventato così importante per la mia vita, dimostra che regalare un libro è sempre un’ottima idea. Perché magari ci mette 40 o 80 anni, ma prima o poi diventa importante.

Appena l’ho iniziato a leggere mi sono chiesto come fosse stato possibile trarne una sceneggiatura: perché “La mia Africa” non è affatto un romanzo, ma un semplice libro di memorie che non segue più di tanto nemmeno un ordine cronologico.

Se sulla copertina campeggiano poi Robert Redford e Meryl Streep (Redford nei titoli del film viene addirittura prima), il personaggio che interpreta – Denys Finch Hatton, in realtà compare solo a pagina 179 e gli vengono dedicati – in tutto – appena tre capitoli. Il marito di Blixen poi, vero co-protagonista del film, viene appena menzionato un paio di volte.

Non ci sono momenti d’amore, nelle memorie di Blixen, e nemmeno digressioni autobiografiche: il libro è invece una straordinaria osservazione – dal punto di vista di un’aristocratica scandinava – dell’Africa, i suoi uomini, le sue tradizioni.

Mi ha aiutato tantissimo a capire il Paese che stavo visitando, ed è anche particormente interessante perché racconta un mondo che sta cambiando: dal 1913 (anno di arrivo della Bixen) al 1931 (anno in cui se ne è andò per sempre da Nairobi) il mondo è cambiato: sia sotto il profilo tecnologico (la narrazione passa dalle carrozze alle automobili e gli aeroplani) sia sotto quello politico, con una colonizzazione che si è fatta sempre più feroce e il rapporto degli europei con gli indigeni sempre più squilibrato.

Di solito sono sempre molto lento nelle mie letture. Per leggere un romanzo ci metto anche 6 mesi. Questo l’ho divorato in due settimane, ed era magnifico leggere le descrizioni dei masai, e subito dopo incontrarli, assaporare la descrizione della sua fattoria, poi togliere il libro dalla mia visuale e vedere la fattoria stessa.

Mentre lo leggevo, dal Kenya ho comprato su Amazon il dvd del film, da vedere appena tornati e appena finito il libro.

Non c’è niente di più banale di dire che “il libro è meglio del film” ma l’opera di Pollak si conferma – sin dalle prime immagini – come il polpettone romantico che mi aspettavo.

Il fatto che c’entri così poco con l’omonimo libro, poi, è spiegato sin dai titoli di testa: “Out of Africa” di Blixen è infatti solo una delle molte fonti usate dallo sceneggiatore, che ha utilizzato anche un altro libro di memorie scritto da Blixen vent’anni dopo – poco prima di morire – “Ombre sull’erba”, le lettere dall’Africa e ben due biografie di Blixen, di cui una incentrata proprio sulla storia d’amore con Finch-Hatton, il cui autore è anche produttore esecutivo del film.

Potrebbe essere un'illustrazione raffigurante 2 persone e testo

Precedente Il titolo non gliel'ho dato però Andrea Giuli ne ha trovati di meravigliosi: Anatema del coglione in abitacolo, il Coglione automunito, L'assassino in abitacolo, L'inutile che guida. Successivo 2023