ELISA, UN SECOLO DI RICORDI

                      

“Quando mi vuole chiamare, io sono qui. Per me va bene uguale: partire, o restare ancora un po’ in questo mondo”.

All’età di 102 anni – compiuti giovedì scorso e festeggiati con tutta la famiglia e un mazzo di rose rosse inviate dal sindaco – Elisa Onofri non è stanca di vivere e non ha paura di morire.
Il suo segreto? Il lavoro. Perché lei – che è nata a Cesi il 2 marzo del 1904, settima di nove figli – ha sempre lavorato e faticato tanto, ma non si è stancata mai, nemmeno quando la vita l’ha messa a dura prova.

Di ricordi Elisa – che ha ancora oggi un’ottima salute, nonostante 6 operazioni subite – ne ha tanti, e dai suoi racconti emerge l’immagine di una città nata contadina e divenuta industriale, ma anche di tradizioni delle campagne e proverbi popolari di cui si è persa la memoria.

Con i cenci e i cenciarelli ci vestiamo i figli belli, ripeteva sempre mio padre. Eravamo una famiglia contadina, con pochi soldi, e quindi per vestirsi bisognava arrangiarsi un po’. Ho lavorato sin da bambina, si cominciava con un gioco: il primo dell’anno si facevano le pizze e dentro si mettevano un paio di forbici, un piattino, oppure una bambolina. Quando si mangiava chi trovava le forbici doveva imparare a cucire, chi il piattino a lavare. A sei anni sono andata a vivere con mia zia, a San Rocco. Lei mi ha fatto le scarpe e la maglietta. E allora ho fatto una vita un po’ migliore”.

Perché andò da sua zia?

“Perché non aveva figli, e così decise di prendersi cura di me. Prese anche un bambino alla bastarderia di Narni, che divenne come un fratello. Molti anni dopo, una contadina di Finocchieto ci disse di conoscere la sua vera madre. Ebbene, si scoprì che questo mio fratello adottivo era il figlio illegittimo del più ricco signore di Stroncone. E quando aveva ormai cinquant’anni, andò a Finocchieto con tutti i suoi figli per conoscere la madre e la sua famiglia”.

Anche da sua zia lavorava?

“Certo. A dieci anni ho cominciato a lavorare il campo con lei. Ho domato una somara che quando vedeva l’acqua non voleva camminare. Era un bel modo di lavorare, si faticava, ma si stava sempre allegri. Mio padre, quando arava il campo cantava”.

Poi arriva la grande guerra.

“Quattro miei fratelli sono partiti per il fronte. Ricordo che ogni volta che arrivavano notizie papà piangeva. Alla fine, però, grazie a Dio e alla Madonna, sono tornati a casa tutti e quattro”.

Ci andava a ballare?

“Certo. A Collescipoli si facevano le feste dentro le case: chi portava le castagnole, chi suonava la fisarmonica. Comunque io ci sono andata poco, alle feste, perché a 16 anni ho già cominciato a fare l’amore, e a 18 ero sposata. Mio marito, che veniva dalle Marche, abitava accanto a noi.  Io andavo a prendere l’acqua alla fonte, con la brocca sulla testa, prima ci si salutava e basta, poi si è cominciato a parlare…”.

Colpo di fulmine?

“Sì, e come erano invidiose, le altre ragazze. Dicevano guarda un po’, quella Scaramelletta secca che bel giovanotto che ha trovato”.

Come è stato il matrimonio?

“Ci siamo sposati a San Rocco e poi siamo andati tutti a piedi a Collescipoli, dove il padrone del casale dove lavoravamo ha offerto il pranzo. Viaggio di nozze a Fabriano, in treno: otto giorni dai parenti di lui”.

Che lavoro faceva suo marito?

“Ha fatto vari lavori: prima era manovale alla stazione, poi è stato scopino. Lo scopino più giovane di Terni! Poi ha lavorato alle acciaierie”.

Primo figlio?

“Subito, nel 1923. Ci siamo sbrigati. D’altra parte la notte faceva freddo! Poi non è che si usciva molto la sera, e allora… abbiamo fatto sette figli, l’ultimo nel 1939, quando siamo venuti ad abitare qui, in via delle Conce”.

Intanto arriva il Fascismo…

“Uno dei miei fratelli era antifascista. E’ morto suicida, nel 1922. Ha lasciato un biglietto con scritto Non è colpa di nessuno. Pare che i fascisti lo avessero minacciato”.

Com’era la sua vita familiare?

“Una volta l’anno, a Natale, portavamo i bambini al circo. A San Valentino c’era la fiera, con la tombola, la pesca, le bancarelle. C’erano tutte le coppie di fidanzati contadini: passeggiavano, lui tirava fuori un grande fazzoletto e comprava le nocchie per lei. A Pasqua, invece, si veniva a messa in Duomo, alle undici di sera. Ovviamente sempre a piedi, da San Rocco”.

Nel 1939, mi diceva, è venuta ad abitare qui.

“Con tutta la famiglia. Eravamo undici persone, con i suoceri, tutti in questo appartamentino senza bagno e con due camere: in una dormivano nonno e nonna con i maschi, nell’altro mamma e papà con le femmine. Poi, all’occasione, ospitavamo gente che aveva parenti all’ospedale, che si trovava proprio qui accanto”.

E arriviamo alla Seconda guerra mondiale…

“Hanno bombardato tutto. Qui è crollato il tetto, anche se la casa è rimasta in piedi. Sfollati a San Rocco, siamo tornati a casa solo dopo la fine della guerra”.

Suo marito è morto giovane…

“Una tragedia. Era il 1965. Lui si trovava in camera, di fronte alla finestra, aperta, stava appendendo le salsicce. E’ scivolato e precipitato in cortile. Morto sul colpo. Io non c’ero e quando sono tornata ho trovato la polizia”.

Come ha passato questi ultimi anni?

“Ci sono stati momenti buoni e momenti cattivi. Ho partecipato a molte iniziative della parrocchia, a gite. Sono stata al mare, ho visto molti posti. A 80 anni ho visto i campi dove avevano combattuto i miei fratelli. Ci sono stati momenti dolorosi, come quando è morto mio figlio e il mio genero. Ma sono contenta, d’altra parte quando la salute e buona e i figli non ti danno dispiaceri, si può stare bene”.

(da Il Giornale dell’Umbria del 7 marzo 2006)

Un anno dopo: Il Giornale dell’Umbria del 7 marzo 2007

Precedente Il tripudio sobrio di Paolo Conte Successivo ARNALDO CASALI