COL CUORE ESPANSO

Ho messo online le puntate di Galileo che avevo e inserito la sezione “Svarnet” in RadioAdesso.

 

Praticamente sono due giorni che in ufficio non sento altro.

 

Troppo brevi, troppo poche. Sono già in crisi di astinenza.


Ho bisogno di quella musica dolcissima, ho bisogno dei rumori della casa, ho bisogno dei racconti. Ho bisogno, soprattutto, di ascoltare la tua voce.

 

Anche se mi fa un effetto un po’ imbarazzante: quando la sento mi salgono le lacrime agli occhi. E se non mi trattengo scendono, anche. E poi mi tocca asciugarmi la faccia di corsa, sperando che nessuno entri in sala stampa, almeno per qualche minuto.

 

Ma perché questo effetto? Sarà nostalgia o felicità?


Già mi manchi o sono troppo felice di averti incrociato sulla mia strada?


O è semplicemente il tuo modo di parlare, che tocca così a fondo il cuore?

 

E’ difficile, adesso, capire che se a commuovermi è quella voce o il pensiero della persona che c’è dietro.
Perché io ti conosco, almeno un po’. Conosco il tuo volto, conosco il tuo sorriso, conosco il tuo cappello a forma di fragola. Conosco il tuo genio. Conosco il tuo abbraccio.

Però quando sento quella voce – che devo fare? – mi commuovo.

 

Perché è una voce, la tua, che fa sentire a casa.

 

Ma non a casa Svarnet, in vico Santa Chiara, o in qualsiasi altra parte del mondo. No.


Mi fa sentire a casa nella mia vita.

 

Ed è questa la cosa più straordinaria. Perché io, a casa, nella mia vita, non mi ci sono sentito mai.

 

Hai presente la battuta di Woody Allen? “Il mio unico rimpianto è non essere qualcun altro”. Ecco, è così che mi sono sempre sentito: in eterna ricerca di un posto nel mondo.

 

Non è facile, per me, sentirmi a casa. Soprattutto in mezzo agli estranei. Se sono persone che non mi piacciono mi sento a disagio perché mi annoio, e allora tendo o a scomparire o a sopraffare.
Se mi piacciono troppo, mi sento inadeguato. Non mi sento all’altezza della compagnia, e cerco di tirare fuori a tutti i costi la mia parte migliore. E non è detto che ci riesca.

 

Ma la tua è una voce che ti fa sentire nel posto giusto. Dovunque tu sia.

 

E’ una voce, e sono parole – le tue – che riconciliano con l’arte con la vita.


Questi due eterni nemici, sempre in lotta.


Dove c’è arte non può esserci felicità. E la felicità deve sempre essere banale e prosaica. Perché l’artista, si sa, più è maledetto e infelice e più è sublime, quando gli innamorati si sposano il romanzo finisce, la gioia raccontata è sempre memoria e rimpianto e mai presente.

 

Perché la poesia è retorica, l’arte è artificio, e la vita è un’altra cosa.

 

E invece quando parli tu, tutto torna insieme, come nei giardini dell’Eden.

 

Le tue parole sono poesia senza retorica, la tua voce è purezza senza artificio.

 

Ascoltarti è come bere un bicchiere di acqua fresca.

E’ come immergersi in un bagno caldo.

 

Tu sei una lente attraverso la quale la vita quotidiana diventa poesia e la poesia diventa vita reale.

 

E allora anche io che sono così prosaico mi riscopro opera d’arte, perché creatura amata e irripetibile. Se solo riuscissi a vivere veramente!

 

E’ la cosa più difficile, ma diventa così semplice quando ascolto la tua voce!

 

Ho incontrato nella mia vita diverse persone mi hanno fatto venire voglia di essere una persona migliore. Ma tu no, tu mi fai una persona migliore!

 

Ho incontrato nella mia vita persone che mi fanno venire voglia di vivere, ma tu no, tu mi fai vivere!

 

Tu non sei solo un’artista. Tu sei una sacerdotessa, perché riesci a mettere in comunicazione l’umano e il divino, il cielo e la terra, l’arte e la banalità del quotidiano, e a tirare fuori l’unicità e la bellezza di ogni creatura e di ogni momento.

Per dirla con Kipling, riesci a riempire ogni minuto di una cosa che vale sessanta secondi.

 

E adesso devo raccontarti l’avventura capitata a Valeria, la mia pianta di ciclamini.

 

Allora tu devi sapere che io sono un tipo perdutamente sbadato. E dunque lunedì mattina, quando con Bea abbiamo abbandonato la casa, siamo andati alla mia macchina per lasciare i bagagli e poi al bar a fare colazione.

Poi siamo tornati alla macchina e ho accompagnato Bea alla stazione.
Durante il tragitto mi ripetevo: “Ma la pianta dov’è? Dove diavolo l’ho messa?”. Niente, non si vedeva da nessuna parte. Sembrava sparita.

 

Arriviamo alla stazione, scendo, chiudo lo sportello e mi trovo davanti il piccolo vaso che mi hai regalato, sopra il tettuccio della macchina, appena un po’ inclinato.


L’avevo appoggiato lì sopra quando eravamo arrivati con i bagagli, e si era fatto tranquillamente tutto il viaggio senza perdere l’equilibrio!

 

E’ forte la mia pianta.

E’ allegra, ma sa essere seria. Non poteva che chiamarsi Valeria.

 

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