PER DONO

Mia madre era una suora. Mio padre era un soldato.
Maria, mia madre, aveva una bella famiglia, nel suo paese, e numerosa. Aveva anche un bel fidanzato e molti amici. Si dava molto da fare con i bambini della parrocchia e studiava per diventare dottoressa. Ernesto, il ragazzo, la amava veramente e con tutto il cuore, così come lei amava lui.
Egli non le chiese mai la prova d’amore, come facevano la maggior parte dei fidanzati delle amiche di Maria. Ernesto comprendeva e condivideva la sua scelta di purezza.
Non aveva fretta, sapeva che dopo il matrimonio il loro rapporto sarebbe diventato totale e gli andava bene così.
Maria voleva sposare Ernesto, non desiderava altro dalla vita. Eppure, ogni volta che si parlava di matrimonio sentiva come un turbamento, quasi una forza negativa che gli si opponeva quando sentiva odore di scelta definitiva.
Allora Maria si confidava con il Signore, chiedeva una risposta a quei dubbi che la tormentavano.
E un giorno la risposta arrivò.
Donare tutta se stessa a Dio e al prossimo. Un lavoro normale e una famiglia avrebbero chiuso e limitato la sua realizzazione cristiana. Donare tutta se stessa. Questo voleva.
Ernesto pianse silenziosamente e disse solo:
Preferisco perderti per qualcuno più grande piuttosto che per qualcuno più piccolo.
 
Maria partì per l’Africa, ed era tutto ciò che voleva. Nella missione conobbe l’entusiasmo e lo sconforto, l’energia e la stanchezza, la fatica e la soddisfazione. Conobbe la gioia e conobbe l’angoscia. Conobbe la Vita. Conobbe i sorrisi dei bambini senza gambe e le urla di dolore delle madri dei ragazzi uccisi.
Toccò con mano l’orrore e la sofferenza, ma conobbe anche la felicità… la felicità PIENA. TOTALE. VERA.
Conobbe il Signore di persona, vide Gesù, ci parlò, lo andò a trovare ferito negli accampamenti della Croce Rossa, e malato nell’ospedale del villaggio.
Si sentiva realizzata, in quel luogo. Finalmente realizzata.
Un giorno però arrivò l’ordine di lasciare la missione. C’era una guerriglia in atto e il villaggio era in pericolo, tutte le suore dovevano fuggire e mettersi in salvo in Europa, ma molte rifiutarono di andarsene.
Maria non poteva lasciare quel popolo. Il SUO popolo. A quella gente, a quei posti la legava un amore che non poteva abbandonare. Quella era la sua vita.
Se se ne fosse andata le sarebbe sembrato di lasciare Gesù, avrebbe lasciato in quel posto una parte di sé. La parte più bella.
 
Coji era un ragazzo forte e robusto. L’orgoglio di tutta la sua famiglia.
Quando fu grande partì militare. Come tutti. E fu un ottimo soldato.
Disciplina, lealtà, coraggio, obbedienza. Questi divennero in breve i suoi valori. La guerra gli metteva paura, certo, Coji era giovane, non aveva ancora vent’anni. Sapeva di rischiare la vita, ma sapeva anche che era per una causa giusta, sapeva che era suo dovere combattere, sapeva che il nemico doveva essere sconfitto per il bene del suo popolo. E la guerra avrebbe anche messo alla prova il suo valore di uomo.
Coji combatté‚ sempre con coraggio e lealtà. Non saccheggiò un villaggio, non uccise donne né bambini. Non infierì sul nemico moribondo. Eseguì sempre gli ordini dei superiori con prontezza e disciplina.
Un giorno gli ordinarono di stuprare le suore della missione.
Egli obbedì, fece il suo dovere. Con i compagni andò in missione e stuprò una decina di donne.
Non era spiacevole quando capitava una bella ragazza.
Erano poche giovani e belle e con i compagni se le litigavano, qualcuna la stuprarono due, tre volte. Con loro era piacevole. Era un adempimento del dovere che una volta tanto aveva qualcosa di divertente.
Sì, gli piaceva. A chi non piace?
 
Cosa provava Maria mentre quel soldato la teneva ferma e intanto la penetrava, la violava nella sua integrità… fisica, ideale, religiosa?
Cosa provava mentre quello sconosciuto che con quegli occhi bianchissimi su un volto nero come un demone le portava via la sua purezza, la sua verginità?
Martirio? Disperazione? Sconforto? Morte?
Sì, forse desiderò di morire. Forse sperò con tutto il cuore che quei diavoli furiosi non l’avrebbero lasciata vivere.
Che senso aveva oramai vivere?
Rimase lì, accasciata a terra, nella polvere, finché‚ qualcuno non la portò via.
Quello che fu poi, ospedali, conforti, lacrime, non importava.
Era finito. Tutto finito.
L’avevano privata.
Aveva scopato. Cosi dicevano le amiche nel suo paese.
La prima volta sarebbe stata bellissima, con Ernesto che le accarezzava i capelli nel loro letto nuziale, si sarebbero spogliati lentamente, un po’ imbarazzati, si sarebbero poi amati con dolce passione, con un bacio delicato che coinvolgeva mano mano tutto il corpo…
Ma il fiato fetido che alitava sul collo affannosamente non era un bacio sussurrato, le mani che stringevano sui polsi non erano carezze di un amante, le gambe forzatamente larghe, quel coso duro che bucava la carne invadendo la sua intimità, portandole via la purezza della Vergine, l’amore di Gesù…
Essa non era più integra, non era più pura. Non era vergine. Non era più.
Quell’uomo l’aveva sporcata di qualcosa che niente avrebbe potuto ripulire.
Ma perché, perché Signore hai permesso questo?
Io tua serva, tua figlia. Perché?
Cosa di buono poteva nascere da quell’orribile esperienza?
Cosa che avesse un senso nel disegno divino?
 
                                     Incinta.
Si ripeteva quella parola senza capire. Cosi aveva detto il dottore.
Incinta? Cosa significava?
Significava che il seme dell’odio era entrato in lei, significava che il demonio l’aveva fecondata, significava che qualcosa stava crescendo dentro di lei, una creatura generata dal male.
Non aveva mai pensato seriamente alla maternità, era sempre stata una cosa troppo lontana dalla sua giovinezza. Mamma? Sua madre. Ella si sentiva ancora figlia. E ora…
                                    Cosa? Cosa stava succedendo?
Una creatura stava crescendo dentro di lei. Quell’uomo l’aveva fecondata, il male che l’aveva colpita ora si stava sviluppando e ingigantendo dentro di lei.
     Perché Signore, perché?
    Perché se mi ami?
   Perché se sei Amore?
 Perché anche questo?
Era la malattia più terribile che potesse colpirla, ella si sentiva annullata da quel orrore che l’avrebbe sopraffatta distruggendo ciò che rimaneva della ragazza piena di entusiasmo che era arrivata in Africa, eppure ciò nonostante sentiva forte il desiderio di GUARIRE.
E solo una cura c’era a quel male, lo sapeva. Una cura terribile, ma c’era.
Se qualcuno dei suoi superiori le avesse detto che era una cosa giusta forse avrebbe abortito, avrebbe distrutto il frutto generato dalla violenza e dal male, prima che lui la uccidesse.
Ma nessuno le disse che era giusto.
E Maria tenne il bambino.
 
Eppure, dal giorno in cui decise che sarei nato, da quel giorno qualcosa cominciò a cambiare in lei. Si sentì, durante quei nove mesi, lentamente invadere da un profondo amore verso quella creatura che teneva in grembo, cominciava a sentirmi come parte di lei. Cominciò a provare un amore assurdo e spontaneo, inconcepibile e naturale.
Sentì suo figlio. Il suo bambino. Mi amò mentre mi preparavo a venire al mondo. Mi amò di un amore immenso, un amore più forte di lei.
Non so che fine abbia fatto mio padre. Forse è morto in guerra, forse è stato ucciso, forse si è ammalato, o forse è tornato a casa, si è fatto una famiglia e ha vissuto una vecchiaia serena.
E forse, in qualche notte insonne, quegli occhi terrorizzati sono tornati a tormentarlo, di tanto in tanto.
Chissà… se ha mai pensato a mia madre.
Mia madre io non l’ho mai conosciuta.
 No, non l’ho uccisa io. Ella mi ha visto nascere, ha fatto in tempo ad allattarmi e ad accarezzarmi. Ha fatto in tempo a darmi un nome, ed ha voluto chiamarmi così. Assurdamente così.
Ma non ce l’ha fatta a sopravvivere in una condizione così anomala e contraddittoria, suora mamma. Non poteva reggere quella sua condizione opposta, notava, a quella della Vergine:
Sposa di Cristo e madre dell’uomo.
Ella è stata sopraffatta dall’Amore. Un amore più grande del male, un amore più grande di lei. Ella ha compiuto la trasformazione ed ha donato la sua vita a me,
 Dono, figlio dell’odio, adottato dall’amore.

Maggio 1997

 

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