NILLO E L'ANIMA GEMELLA – atto II

III
 
Don Gabriele parlava dall’ambone. Era un ottimo predicatore: breve e conciso. Ma quella mattina, il vecchio Nillo, proprio non ci riusciva a capire quello che diceva; riusciva a sentire solo i suoi pensieri, che continuavano a parlargli di Amélie Chopin. E ridacchiava, tra sé, il vecchio Nillo, pensando a quanto ci avrebbe ricamato sopra, uno spirito romantico – o semplicemente un po’ meno cinico del suo – sulle circostanze in cui si erano conosciuti, con la giovane Amélie.
 
Perché questi due eroini del neoromanticismo anni ’10 si erano incontrati, la prima volta, nientemeno che il giorno di San Valentino, dentro la basilica di San Valentino, proprio di fronte alla tomba del patrono dell’amore.
 
Ad essere precisi le cose erano andate così: entrambi avevano partecipato all’organizzazione di un piccolo festival di arti varie che si svolgeva in febbraio e si erano incrociati – lei tra gli artisti, lui gli organizzatori – un paio di volte.
 
Amélie aveva visto la prima volta Nillo il giorno di San Valentino all’interno di un auditorium dove lui coordinava un dibattito su cinema e matrimonio con il regista D’Alatri. Nillo, invece, si era accorto di Amélie qualche giorno dopo, assistendo ad un recital nella basilica di San Valentino, a cui lei aveva partecipato come attrice.
 
“Ah ah ah ah”.
 
Nillo si voltò. Un uomo, seduto nel banco a fianco a lui, era scoppiato a ridere proprio mentre Nillo in cuor suo sorrideva pensando a quella curiosa e romantica coincidenza.
Era un uomo dai capelli grigi, tagliati corti, piuttosto grassoccio, con la barba sale e pepe, incolta, jeans chiari, scarpe da tennis grigie e una camicia bianca con le maniche tirate su. Notò che indossava un braccialetto di lattice simile a quello del Referendum sull’acqua pubblica, che Nillo portava al polso da otto mesi, anche se era di un celeste più chiaro e aveva stampate in bianco delle scritte, ma riuscì a leggere solo le parole “Gorje” e“Queen” con in mezzo una specie di scarabocchio.
 
Nillo lo guardò malissimo. Ma cosa diavolo si rideva, il tipo, in chiesa durante la messa?
L’uomo si avvicinò e diede una pacca sulla spalla a Nillo, con un’aria confidenziale che irritò subito il nostro eroe. “E’ vero, è proprio una coincidenza straordinaria!” fece l’uomo, sottovoce, come se gli avesse letto nel pensiero. “E non è tutto!” aggiunse.

Nillo non disse niente, ma lo guardò con un’aria a metà tra il meravigliato e il severo e scosse la testa, come a dire: “Che vuoi dire?”.

L’uomo continuava a sorridere con un’aria pesante, come se stesse sorridendo di un argomento su cui non c’è proprio nulla da ridere: “E lo sai quando vi lascerete?” fece. “Il giorno di San Valentino, due anni dopo esatti dopo il vostro primo incontro. Dico sul serio! E non è finita qui: sai dove vi vedrete per l’ultima volta, prima che le vostre strade si dividano? Proprio in quella Chiesa, durante un suo concerto”.
 
Nillo era sconvolto ma l’uomo, con noncuranza, si alzò e se ne andò, uscendo dalla chiesa mentre don Gabriele continuava a parlare.
 
Nillo era rimasto turbato dalle affermazioni dello sconosciuto, ma ben presto recuperò il filo dei suoi pensieri, riflettendo su quanto l’aveva odiata, la Festa degli innamorati, fino a quel momento. Un po’ per ragioni campanilistiche, perché quella che per lui era la festa del Patrono della città, per il resto del mondo era solo una ricorrenza commerciale dalle immancabili reminiscenze americane, un po’  perché negli ultimi anni il suo interesse nei confronti della figura di San Valentino – in gran parte leggendaria – era circoscritto quasi esclusivamente all’aspetto storico, oltre che quello artistico-politico. E poi – diciamolo pure – perché a lui la festa degli innamorati sembrava portare una sfiga immane.

Se pensava, al giorno di San Valentino, Nillo, ricordava di averlo passato quasi sempre da solo.
Per un motivo o per l’altro, lui, la classica serata con cenetta romantica e regalo, in 35 anni l’aveva fatta solo una o due volte. In compenso almeno quattro volte la festa di San Valentino aveva sancito la fine di un amore: undici anni prima Inta le aveva rivelato, quindici giorni dopo averlo lasciato, di essersi fidanzata con un altro; due anni dopo Flavia aveva chiuso definitivamente il tormentato rapporto che durava da un mese e mezzo e l’anno successivo quel giorno Ele gli aveva spiegato che l’episodio del 10 febbraio era destinato a rimanere isolato: non il degno coronamento di una lunghissima amicizia, non un sogno durato vent’anni e divenuto finalmente realtà, ma solo un errore. Un errore da non ripetere.
Tre anni prima con Agnese avevano partecipato ad una trasmissione televisiva della Rete ammiraglia raccontando la loro incredibile storia d’amore, poche ore dopo una litigata furibonda, e di fronte agli scrupoli della ormai quasi ex ragazza, Nillo l’aveva rassicurata spiegandole che in televisione è tutto finto, soprattutto l’amore.

L’anno dopo – anche questa volta, proprio nel giorno di San Valentino – Agnese lgli aveva annunciato le nozze con quel camionista cecoslovacco con cui l’aveva trovata a cena quella sera in cui si era presentato a sorpresa a casa sua, e poi aveva fatto quella leggendaria scenata dallo squisito sapore teatrale. Una delle performances di cui andava più fiero e amava ancora raccontare agli amici.
 
Uno dei pochi San Valentino felici, Nillo, l’aveva passato proprio quell’anno del festival in cui aveva conosciuto Amélie.

Aveva una splendida fidanzata in quel periodo, il nostro Nillo, affettuosa e presente, ed era proprio lì, a fianco a lui, quel giorno del dibattito con D’Alatri. Ed era un vero peccato che Nillo, di Reb, non fosse innamorato.
 
“Certo che è carina la Madonna” aveva pensato quella sera nella basilica del santo,osservando la ragazzina che interpretava la Vergine Maria nel recital su Dante.
Carina, ma figuriamoci: aveva la metà dei suoi anni, Amélie, e una faccia da bambina.
 
Nei mesi successivi, lui e la ragazzina, si erano – di tanto in tanto – incrociati. Poi avevano preso ad annusarsi, ad osservarsi. E grazie a quello sfigato da premio Nobel di Mark Zukerberg avevano finito per diventare amici. Infine, a Natale, quel concerto fatale.

“Bellissima. Bravissima. Gran vestito” le aveva scritto Nillo sulla bacheca.

Qualche giorno dopo, nella chat, era apparsa all’improvviso l’icona di lei. “Preso!” aveva scritto la ragazza. Un modo curioso di iniziare una conversazione.
 
Preso davvero. Avevano chattato fino a notte fonda, parlando di tutto. E poi si erano visti una volta, una volta sola, a casa di lei, il giorno di Santo Stefano.

Era stato un pomeriggio lunghissimo: lei aveva suonato, aveva parlato, aveva scherzato. E lo aveva anche un po’ umiliato, il povero Nillo, quando era arrivato il suo boy dal nord e lei aveva chiesto al Nillo di accompagnarla alla stazione per andarlo a prendere.
 
Pochi giorni dopo Nillo era partito per un capodanno in Romania, e c’era un nome solo nel cuore del vecchio, in quei giorni meravigliosi nella terra di Vlad l’impalatore.

"La terra dove sembrano concentrarsi tutte le superstizioni del mondo" aveva scritto Bram Stoker in Dracula. Ed era vero: era una terra magica, se ne accorgeva dai sogni densi che faceva ogni notte, nella vecchia casa costruita a mano, mattone per mattone dalla mamma e dalla nonna di Veronica. C'era una grande stufa a legna, al centro di quell'appartamento sbilenco, e le camere c'erano costruite intorno, perché la stessa stufa ne scaldasse almeno tre.  Durante le lunghe passeggiate nel bosco in mezzo alla neve, Veronica aveva raccontato a Nillo di come – da ragazzina – aveva sentito vicino al suo letto il fantasma della bisnonna, i passi e le mani che cercavano qualcosa. Poi, quando si era svegliata, la nonna le avevano spiegato che cercavano i capelli. I suoi capelli che prima di morire aveva nascosto sotto al cuscino, seguendo un'antica tradizione.

Era stato diseppellito, poi, il cadavere della bisnonna, ed era stato trovato perfettamente intatto. Per i cattolici sarebbe stato un segno di santità ma per gli ortodossi era un segno del diavolo, e su quel corpo era stato compiuto un esorcismo prima di seppellirlo nuovamente. Quando la bara – raccontava Vero – anni dopo era stata riesumata ancora, questa volta era stato trovato uno scheletro. L'anima della bisnonna era finalmente libera.

Si erano scritti non sapeva nemmeno lui quanti messaggi sul telefonino, in quei pochi giorni, romeni, Nillo e Amélie, tra amenità, piccoli racconti e promesse di rivedersi non appena lui fosse ritornato.
E il vecchio Nillo, per questa giovane quasi-sconosciuta, aveva preso anche un regalino; un regalino che, però, non le avrebbe dato mai.

Di quale regalino si trattasse – abbiate pazienza – non saprei dirlo con esattezza. Così  come non posso garantire che Amélie, quella notte, scrisse proprio la parola "Preso!".

Mai il senso era quello. Poi si sa che i giornalisti tendono un po' a inventare, anche se posso assicurarvi che io sto cercando di attenermi il più possibile ai fatti, evitando invenzioni e suggestioni personali. 

E' vero anche che i protagonisti di questa vicenda,  conoscendo l'attitudine pettegola del vostro umile cronista, hanno evitato di far sì che venisse a conoscenza di tanti dettagli. I miei cinque lettori mi perdoneranno, quindi – nonostante sia persona molto informata dei fatti – qualche imprecisione e qualche lacuna.

D'altra parte, se manzonianamente il sottoscritto continua a rifiutare di scrivere storie che non  trovino nella realtà la loro base e la loro linfa,  rivendica anche – al tempo stesso – il diritto di immergere il lettore in questa vicenda per puro gusto affabulatorio, e non per raccontare gli affari altrui.

Insomma, se doveste incontrare Nillo o Amélie evitate – come avete fatto in passato – di fare riferimento a questo racconto per chiedere conto della loro vita privata. Un racconto, anche quando è basato su fatti e personaggi reali, resta solo e soltanto un racconto. E, da scrittore in cerca di storie quale ardisco a considerarmi, vorrei evitare di perdere una preziosa fonte di informazioni come il vecchio Nillo, solo per l'impertienza di qualche mio affezionato lettore.

 IV
 
Aveva messo via Delitto e castigo, interrotto proprio nel mezzo di un pranzo funebre, con la padrona di casa che si lamentava perché gli invitati di un certo livello sociale avevano dato tutti buca e alla fine si erano presentati solo i più buzzurri e ignoranti.
 
I passeggeri che dovevano scendere a Verona erano già tutti in piedi da dieci minuti e Nillo decise, per una volta, di non aspettare proprio l’ultimo secondo.
Aveva preparato lo zaino, la valigia, e si era messo il giubbottino nuovo della Guinnes comprato a Dublino, pronto per il secondo cambio di quel lungo viaggio in treno.
 
Verona. E ridacchiava tra sé – “no, adesso non tirare fuori pure Romeo e Giulietta, per favore!” – si diceva.
 
D’altra parte, sapete com’è, la relazione con Amélie era ancora segreta, perché i genitori di lei non l’avrebbero presa bene a sapere che il fidanzato della Piccina è nientepopodimeno che il vecchio Nillo. E non sarebbe stato – badate bene – certamente il Nillo, a rappresentare un problema, per i genitori della novella Giulietta. Era il vecchio, il problema, visto che la differenza di età, tra Nillo e Amélie era esattamente la stessa che c’era con la mamma, di Amélie.
 
Tecnicamente – ebbene sì – tecnicamente sarebbe potuto essere suo padre. In fondo una sua compagna di classe delle elementari aveva una figlia nata appena un anno dopo.
 
Se vogliamo dirla tutta, poi, Nillo aveva una bicicletta che aveva un anno di più della sua fidanzata. Ché la vecchia Adriatica II (così detta perché era andata a sostituire la drammaticamente scomparsa in piazza Tacito in un triste pomeriggio di settembre Adriatica I, regalatagli per la cresima) era ormai la sua inseparabile compagna di avventure da quasi vent’anni e l’aveva comprata nel marzo del 1991. Quasi un anno prima che Amélie venisse concepita….
 
Nilo aveva il doppio degli anni di Amélie. Esattamente il doppio. Anche se questo, si consolava, era un problema che si sarebbe risolto con il tempo. Perché alla fine, quando hai 15 anni uno che ne ha quindici più di te ha il doppio dei tuoi anni. Ma quando nei hai 30, uno che ne ha 15 più di te è semplicemente un po’ più vecchio…
 
Certo che la appena diciottenne Amélie, come Giulietta sarebbe stata molto credibile; era il vecchio Nillo, che con i suoi 35 anni suonati come Romeo sarebbe apparso decisamente troppo stagionato.
 
35 e 18. Lei era appena entrata nella giovinezza, lui si apprestava ad abbandonarla. Ma in fondo ci stavano dentro ancora tutti e due. E’ vero, se si fossero conosciuti a scuola lui sarebbe stato il professore e lei l’alunna, e questo gli faceva una certa impressione. Ma poi si consolava pensando che se fossero stati calciatori avrebbero potuto ancora giocare nella stessa formazione: in fondo tra i protagonisti della leggendaria finale dei mondiali di calcio del 1982 c’era il quarantenne Dino Zoff e il diciottenne Giuseppe Bergomi…
 
L’ultimo bacio, Compagni di scuola, Scusa se ti chiamo amore…ce ne erano di film che parlavano di relazioni simili a quella che stava vivendo lui adesso. Ma che cazzo, quelle storie non c’entravano proprio niente, con quello che stavano vivendo loro due. Amélie non aveva affatto il fascino della Lolita, l’aria della ragazzina; non era davvero quello che lo faceva impazzire, si ripeteva mentre l’interregionale lasciava finalmente la stazione di Verona, diretto a Brescia.
 
Amélie aveva un’intelligenza, una profondità e un genio che non avevano nulla di ingenuo. Sì, ogni tanto emergeva, qua e là, che Nillo veleggeva verso gli anta e lei non era ancora negli enti, ma fondamentalmente si sentivano entrambi enta.
Il loro rapporto era paritario come quello di due coetanei. Sentivano – se lo erano anche detti, qualche volta – che non erano una diciottenne e un trentacinquenne che si erano andati ad innamorare l’uno della giovinezza e l’altra della maturità; nell’anima erano due venticinquenni nati in decenni diversi che in per qualche strano caso del destino erano riusciti a trovarsi.

V
 
Aprì gli occhi, si sollevò a sedere e si guardò intorno. Era notte fonda e il sedile della 107 era reclinato.

Amélie dormiva accanto a lui, rannicchiata sul sedile del passeggero anch’esso reclinato, sdraiata sul lato destro e con il cappuccio della felpa che le copriva la testa.

Estrasse lentamente la chiave dal cruscotto, bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta di plastica e aprì lo sportello. Scese lentamente, continuando ad osservare Amélie che dormiva, immobile. Chiuse lo sportello a chiave e si diresse verso il mare.
 
Camminava sulla banchina, mentre il cielo iniziava, lentamente, a rischiararsi.
Guardava il mare e si chiedeva cosa ci facesse lì, alle cinque del mattino, con Amélie che dormiva nella sua macchina. L’ansia sembrava soffocarlo come una catena stretta attorno al collo.
 
Arrivò agli scogli e saltò sul primo. Guardò il mare della notte, bello e terribile, e decise di raggiungere il porto continuando a camminare sugli scogli. All’inizio era facile, quasi una passeggiata, ma più andava avanti e più la marcia era complicata. Per procedere doveva saltare da uno scoglio all’altro, e in piena notte non era proprio il massimo. Poi si accorse che la distanza tra un masso e l’altro era diventata troppa, e non poteva più permettersi il rischio di saltare. Doveva arrampicarsi. Ogni passo diventava un’impresa: saliva, scendeva, si aggrappava mani e piedi, poi faceva grandi balzi. Si sentiva l’Uomo Ragno e quell’inaspettata agilità era una piacevole sorpresa, per uno che sportivo non era mai stato e che negli ultimi mesi era ingrassato quasi dieci chili.
 
Quando l’ostacolo sembrava farsi troppo grande si scoraggiava. Si fermava, si guardava attorno, voleva tornare indietro. Ma poi una forza – e non sapeva nemmeno lui da dove venisse – gli diceva di andare avanti, di non arrendersi. Era una sfida, cazzo, e doveva vincerla. Così proseguì fino al porto, e poi tornò indietro, sempre sugli scogli, rischiando ogni momento di mettere il piede in mezzo al vuoto, senza sapere – con quel buio – se sotto ci fosse terra, acqua, sassi.
 
A un certo punto si fermò. Si sedette sullo scoglio e nell’aurora che rischiarava ormai il cielo pensò ad Amélie. E sentì un’amara sensazione di distacco da quella ragazza che dormiva nella sua Peugeot. Si domandava che ruolo avesse nella sua vita. E non capiva fino a che punto il distacco da Amélie non fosse in realtà che un distacco da sé stesso.
 
Rientrò in auto. Amélie continuava a dormire. Si sdraiò di nuovo e chiuse gli occhi, ma non gli riusciva proprio di dormire. Sbuffava un po’, “beata te che dormi” mormorava, oppure “finalmente siamo riusciti a dormire insieme. Chi l’avrebbe mai detto, eh?”.
 
Poi, all’improvviso iniziò a parlare, nemmeno tanto sottovoce.
 
“Cara Amélie. Questo è un posto meraviglioso. Saremmo potuti venire qui da fidanzati, da amanti, o da amici. E avremmo passato dei momenti bellissimi insieme. Invece sento un grande squallore addosso. Perché io sono venuto qui per accompagnarti; per accompagnarti dal tuo uomo. E questa storia, questa storia che hai adesso annichilisce anche gli ultimi frammenti di eterno che erano rimasti nella nostra. Non riesco a non sentirmi una parentesi, nella tua vita. Un errore forse. L’hai detto anche tu, una volta. Ma ero riuscito ad archiviarti, c’ero riuscito: non avevo nessuna voglia di vederti, davvero. Per la prima volta da quando ti conosco, non avevo voglia di vederti. E ho sperato fino all’ultimo che tu ti tirassi indietro, che mi chiamassi dicendomi che non se ne faceva nulla”.

Restò in silenzio, per qualche secondo.

“E adesso, adesso non lo so che cosa provo per te, ora. Pensavo di aver raggiunto un distacco totale, fino a questo pomeriggio. Pensavo che tu appartenessi al mio passato, che fossi solo un bellissimo ricordo; una memoria da coltivare e da custodire, ma senza prospettive, senza futuro, senza presente. Ora sono confuso, sono confuso e non riesco a dormire. E continuo a parlare, e cerco di essere più lento e noioso possibile, perché almeno forse così mi addormento anche io. Ma non ci riesco, vedi? Io parlo, ma non dormo”.

“Se la smettessi di dire cazzate, forse magari ci riuscirei io, a dormire” sbuffò lei, all’improvviso.
Nillo la abbracciò ridendo. “Finalmente. Era da un pezzo che aspettavo questa frase!” esclamò baciandola sulla fronte.
Lei si alzò a sedere. “E’ quasi l’alba” disse. “Andiamo a fare una passeggiata”.
 
Il cielo aveva sfumature di mille colori: rosso, viola, arancio, giallo. Ti offriva tutta la tavolozza che potevi desiderare, e la offriva al mare, rispecchiando quei colori nell’acqua che si faceva sempre più azzurra.
 
Nillo e Amélie camminavano sulla banchina, spalla a spalla, in silenzio.
“Perché mi hai cercato?” disse lui, all’improvviso.
“Beh… era tempo di rivederci. Era tanto che non ci vedevamo”.
“Sei mesi”.
“Già, sono tanti. E poi quando ci siamo sentiti al telefno l’ultima volta, avevamo detto di lasciar passare l’estate, e poi di incontrarci”.
“L’estate non è ancora finita”.
“Per me è finita”.
“Per me è ancora lunga. E non avevo nessun fretta di rivederti. Avrei aspettato ancora un mese, un mese e mezzo, prima di chiamarti. Se non mi avessi cercato tu, io non l’avrei fatto di sicuro”.
“Mi stai dicendo che ti sono indifferente?”.
“Indifferente?” ripeté lui, guardandola negli occhi. “Tu sei la donna della mia vita”.
Lei sorrise, ma lui si voltò e affrettò il passo.
“E io – disse – sono venuto qui, nel cuore della notte, per accompagnare la donna della mia vita dal suo uomo”.
“Non sono venuta per lui. Non sono nemmeno innamorata, di lui”.
“Questo non mi stupisce, tu non sei mai stata innamorata di nessuno”.
“Forse è così. Ma forse di una persona… di una persona sono stata innamorata”.
“Di chi?”.
Amélie lo guardava negli occhi, con timida dolcezza. Scosse la testa. “Non posso dirtelo”.
“Beh, comunque non mi frega niente se sei venuta qui per lui o no. Lui nella tua vita c’è. E questo mi basta”.
“Non lo vedrò nemmeno, in queste ore. Sono venuta per l’isola”.
“Non c’era nessuna fretta di vedere l’isola. Se non sei venuta per lui, allora sei venuta per me, per avere una scusa per rivedermi”.

Lei non disse niente. Guardava il mare, verso l’orizzonte, appoggiata a un muretto del porto.

“E perché volevi vedermi? Perché ti senti ancora legata a me? No. Volevi vedermi perché farti un po’ di cazzi miei. Volevi sapere se ho una donna, se ho avuto delle storie. Soprattutto, volevi sapere se sono ancora innamorato di te”.
“No” disse lei voltandosi. “Non avevo nessun bisogno di vederti, per sapere queste cose. Io sapevo tutto, sin dall’ultima volta che ci siamo visti. Sapevo esattamente cosa mi avresti detto oggi, sapevo esattamente quali sentimenti avresti provato per me”.

Lui restò in silenzio.

Perché? Si chiedeva. Sono così prevedibile? E’ così sicura di sé stessa? Oppure, semplicemente, perché quello che provo io è esattamente quello che prova lei?
Però non disse niente, e riprese a camminare.
 
Erano cinque minuti – o forse cinque ore, cinque ere – che camminavano in silenzio.
Lui la prese per le spalle e la abbracciò. Lei lo strinse e restarono così, abbracciati in silenzio.
Lui la baciava sulla fronte. Lei lo stringeva forte, ma non gli permise di baciarla sulle labbra.
 
“Sai che cos’è che mi fa più rabbia?” disse lui, quando furono davanti al traghetto. “Non è il pensiero del tuo uomo, non è l’idea che tu stasera lo vedrai, starai con lui, non è il fatto che preferisci lui a me. No. La cosa che mi fa più rabbia è pensare alla mia donna che stasera mi chiederà: “Ti sono mancata? Mi hai pensato?”. E io cosa cazzo le dirò? “Sì, tesoro mio, ti ho pensata tutto il giorno, mi sei mancata tanto, non vedo l’ora di vederti”. E mi sentirò una merda, una merda vera più di quanto non mi senta già a stare con una di cui non sono innamorato!”.
 
“Tu non mi baci perché non vuoi tradirlo, il tuo uomo” aggiunse agitato. “E io, invece, beh, nemmeno io la tradirei, la mia ragazza. Perché io lo so che se tu mi avessi dato anche solo un bacio, io avrei istantaneamente chiuso tutto con lei. Non ti sto dicendo se fossimo tornati insieme, sto dicendo un bacio. Senza promesse, senza garanzie, senza prospettive. Perché vale più un minuto con te che tutta la vita con un’altra. E perché ti dico queste cose, cazzo? Perché sono un coglione!”.
 
“Devo andare” disse lei. Si avvicinò e lo baciò sulle guance. Lui restò freddo e immobile come la pietra mentre lei lo salutava e si allontanava, salendo sulla nave.
 
Si era seduta proprio vicino alla porta della cabina e lui la guardava fissa, senza perderla di vista nemmeno per un secondo, ma non avrebbe saputo dire se anche lei stesse guardando verso di lui o se invece aveva gli occhi da un’altra parte.

La nave si allontanava e lui continuò a tenere lo sguardo fisso in quel punto, finché non scomparve all’orizzonte.
 
Allora si voltò, finalmente; entrò in un bar, si fece un cappuccino, una pisciatina al bagno e una lavata di faccia, poi si rimise in marcia. Doveva essere in città alle 10.30 per una riunione importante, ma era perfettamente in orario. In due ore e mezza massimo sarebbe arrivato.
 
Erano quasi trenta ore che non chiudeva occhio e aveva da poco passato il confine del Lazio quando si fermò su una piazzola di sosta, reclinò nuovamente il sedile e crollò.
 
VI
 
L’aveva svegliato il telefono dell’albergo alle 8 in punto, quella mattina di inizio dicembre.
 
Un quarto d’ora dopo aveva sentito per la prima volta la sveglia del suo nuovo telefonino, e aveva finalmente capito perché, per quella prima settimana di vita Nokia era stato costretto a cambiare ogni sera la sim e utilizzare il vecchio Lg come sveglia.
“Pipipipipipipì” aveva fatto finalmente il piccolo cellulare nero. “Chi dovresti svegliare, con questa roba?” aveva pensato Nillo, rigirandosi per l’ennesimo volta nel letto matrimoniale con le braccia e le gambe che indicavano più o meno le tre meno un quarto.
 
Aveva una sete pazzesca, che in fondo a quella notte c’era stata una cena abbondante e deliziosa, al termine della quale il Bianchi l’aveva accompagnato all’Hotel Milano.
Erano appena le 11 di sera e Nillo sapeva che la pioggia che cadeva a dirotto non sarebbe riuscita ad impedirgli di fare una bella passeggiata per quel borgo lacustre.
 
Quello che non si sarebbe aspettato, invece, era che ad accompagnarlo, in quella passeggiata in riva al lago, sarebbe stata Amélie. Non solo nel cuore, intendo, ma anche nell’auricolare.
 
Mentre passeggiata zuppo tra le viuzze addobbate a festa e gli stretti portici di Iseo, Amélie gli parlava del Milite esente. Il Milite che era esente dalle attenzioni di lei, rassicurava, ma che perseverava a chiederle di uscire. Lei era indecisa sul da farsi e il Nillo, apparentemente allarmato da tanto insistente corteggiamento, le sconsigliava pacatamente di vederlo. Ma in realtà, nel cuore – inspiegabilmente – era tranquillissimo. In effetti, non aveva nessuna ragione razionale per esserlo, ché Amélie non era esattamente una monaca di clausura e lei stessa gli stava dicendo adesso che se non ci fosse stato Nillo, nella sua vita, magari con il Milite – perché no – qualche cosa poteva anche capitare. Eppure Nillo, a 800 chilometri di distanza, era tranquillo.
 
“E’ più forte di me – disse – non riesco ad essere geloso. Mi hai così bene avvolto con il tuo amore, che non c’è nulla che possa preoccuparmi”.
 
Scendendo per la colazione, dopo una rinfrancante doccia durante la quale aveva creato un altro lago, artificiale e in pieno albergo, Nillo restò senza fiato di fronte al panorama che si ergeva dietro la finestra della sala ristorante. Quasi una visione onirica: alla luce del giorno il lago di Iseo mostrava tutta la sua maestà, circondato ma montagne innevate e da una nebbia che dava a tutto lo scenario un’aura mistica. Ma era già tempo di andare.

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