NATALE 1252

Era rimasta sola, Chiara, nel suo lettuccio di paglia.
 
Tutte le sorelle erano scese in chiesa, a celebrare l’ufficio del mattutino, per prepararsi alla grande festa.
 
Sola, nel giorno di festa. Nella festa più festa. Nel giorno in cui tutti devono essere felici e in compagnia. Nel giorno in cui la gioia e la condivisione non sono solo un piacere, ma diventano un dovere. Nel giorno in cui non esiste digiuno né penitenza.
 
Francesco diceva che nel giorno di Natale anche i muri devono mangiare carne, e per questo avrebbe voluto chiedere ai governanti di spalmare carne dappertutto e disperdere il frumento per strade, perché anche gli uccelli potessero festeggiare.
 
Tutti a Natale devono essere felici e lodare Dio nella gioia.
Ma Chiara era rimasta sola. Ancora una volta sola, nel dormitorio. Sdraiata in quel lettuccio di inferma da cui non si alzava da quasi trent’anni, ormai.
 
No, proprio non ce la faceva ad essere contenta, quella sera, Chiara. Era il suo ultimo Natale, lo sapeva. Presto il Signore l’avrebbe chiamata a sé, e quell’ultimo Natale in questo mondo avrebbe voluto festeggiarlo come si conviene.
La festa, sì, la festa le mancava in modo particolare quell’anno. Un Natale in solitudine non è Natale. E glie lo disse, a Dio, glie lo disse molto apertamente. Non si teneva niente, quando parlava con lui, non aveva soggezione né diplomazia. Ad un padre le cose si dicono sinceramente, col cuore aperto, e – se necessario – anche con un po’ di legittimo risentimento.
 
“Mi hai lasciata sola” gli disse. “Sì, mi hai lasciata sola. E tutto sommato, non ti sarebbe costato molto darmi un po’ di forza per alzarmi, fare le scale, e scendere in chiesa per pregare con le altre sorelle, no?”.
 
Guardava fuori della finestra il cielo stellato, con la voglia di fuggire via.

Un lampo improvviso illuminò il cielo e una scia di fuoco si trascinò a terra in un secondo.
Buffo, penso Chiara; un stella cadente in pieno dicembre. Poi non resistette alla tentazione e come faceva da bambina nella notte di San Lorenzo, espresse un desiderio.
 
Ad un tratto le parve di sentire il suono di un organo. Aguzzò l’orecchio e, sì, era proprio un organo. Ma dove arrivava? A San Damiano non c’erano organi, né c’erano altre chiese vicino. Il piccolo convento delle Povere Dame si trovava in aperta campagna.
Da dove arrivava, allora, quel suono, che si faceva sempre più forte, come se un organista con tutto lo strumento stesse per entrare nel dormitorio?

Ora sentiva la musica come se l’organo fosse proprio in quella stanza e sentiva anche il canto dei frati. E a San Damiano non c’erano frati.
 
Si voltò verso la porta di ingresso al dormitorio per vedere se ne uscisse qualcuno, ma non c’era nessuno. Eppure la musica era sempre più forte. Si voltò di nuovo e di fronte a lei, al posto della finestra, c’era un altare. L’altare della chiesa di San Francesco.
Era dall’altra parte della città, la basilica. Quasi un’ora di cammino, da San Damiano. Ma l’altare era proprio di fronte a lei.
Chiara si guardò intorno. Al suo fianco c’era frate Leone, e c’era anche suo cugino Rufino, e frate Angelo. C’erano tutti.
Sentiva il giubilo dei frati che salmodiavano nella grande basilica illuminata dai ceri e ascoltava le armonie di quelli che cantavano.
Si unì anche lei a quel concerto meraviglioso e stava pensando che non aveva mai ricevuto un regalo più bello per Natale quando alle sue spalle sentì un belato, come di una pecora.
Mise le mani a terra e con tutte le forze si sollevò a sedere e si voltò indietro. Dietro di lei non c’era più il muro del dormitorio ma un grande prato e a pochi metri da lei un gruppo di pastori con le loro pecore si stavano avvicinando. Si guardò le mani ed erano sporche di terra. Il suo lettuccio non era appoggiato sul pavimento del dormitorio e nemmeno su quello della basilica di San Francesco, ma sulla nuda terra. Si guardò intorno e si rese conto che si trovava all’interno di una grotta e i pastori stavano entrando, con un po’ di soggezione, ma con ancor maggiore ansia di vedere quello che aspettavano da tutta la vita.

Chiara guardò di fronte a sé e al posto dell’altare c’era una mangiatoia, scaldata dal fiato di un bue e un asinello. Alla sinistra della mangiatoia c’era un uomo anziano, appoggiato ad un bastone. Alla destra una giovane donna dalla pelle chiarissima, con la testa coperta da un velo azzurro. Entrambi guardavano dentro la mangiatoia, in adorazione, e anche i pastori, arrivati nella grotta, si erano radunati attorno alla greppia, mentre Chiara si trovava circondata da pecore belanti.


Erano tutti chinati a guardare in adorazione dentro la mangiatoia e anche lei avrebbe voluto con tutto il cuore alzarsi e andare verso quella mangiatoia ma no, il Signore questa grazia, non glie l’avrebbe concessa.
 
Mentre continuava ad osservare quello spettacolo meraviglioso, il suo sguardo incontrò quello della ragazza dal velo azzurro, che sorrise. Poi andò verso la mangiatoia, ne estrasse un neonato e lo portò a Chiara, si chinò e mise il bambino tra le sue braccia.
Chiara la guardava incredula. Accolse il piccolo nel suo grembo e se lo strinse forte al cuore, in lacrime.
 
Non ricordava da quanto tempo non teneva un bimbo tra le braccia ma certo, un bambino così non lo aveva tenuto, né toccato, né visto mai.
 
Lo accarezzava e lo baciava senza riuscire a fermare le lacrime di gioia, mentre la ragazza continuava a sorridere.
 
Disse solo “grazie”, Chiara, quando al termine di quell’attimo infinito, restituì il bambino alla madre, che lo ripose nella mangiatoia. Si voltò verso l’ingresso della grotta e vide che il cielo si stava facendo chiaro e l’aurora si preparava a cedere il passo all’alba. Sentì dei passi alla sua destra e si voltò: la porta del dormitorio era di nuovo al suo posto, di fronte a Chiara c’era ancora la finestra, e alle sue spalle il muro.
 
Dalla porta entrò Balvina, seguita dalle altre sorelle. “Oh madre nostra suora Chiara – esclamò la monaca – che grande consolazione abbiamo avuto in questa festa della natività. Oh, fosse piaciuto a Dio che tu potessi essere con noi!”.
“Care mie – rispose l’anziana badessa – voi mi avete lasciata sola, ma il Signore no, e state tranquille che ha ben provveduto a farmi un bel regalo”.
“E ad essere sincera – aggiunse un po’ beffarda – siete voi che non sapete quello che vi siete perso!”.
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4 commenti su “NATALE 1252

  1. ARNALDOCASALI il said:

    E’ stato il mio modo di festeggiare Santa Chiara, oggi.

    Si tratta dell’ultimo atto del racconto “Il Giorno di Natale”, iniziato nel dicembre del 1996 e finito oggi, con questo 42° capitolo che – in qualche modo – fa il paio con quello dedicato al Natale di Greccio e scritto più di dieci anni fa.

    Devo dire che questo è stato un po’ più difficile da scrivere. Per il Natale di Greccio, infatti, mi ero quasi limitato a copiare Tommaso da Celano, aggiungendo giusto – se ricordo bene – la predica di Francesco. Qui invece ho lavorato più di fantasia, perché le fonti di questo episodio – grazie al quale, nel 1958, giusto giusto 50 anni fa – Pio XII ha proclamato Santa Chiara patrona della televisione – sono abbastanza scarse e discordanti.

    Ne parlano, in modo molto sintetico, i Fioretti, la Leggenda di Santa Chiara vergine e gli atti del processo di canonizzazione. In realtà nessuno dice che Chiara “vide” la messa a San Francesco. Le fonti più attendibili sostengono invece che Chiara “ascoltò” la messa mentre i Fioretti dicono che fu “teletrasportata” in basilica.

    Quindi più che della TV, Chiara sarebbe dovuta diventare patrona della radio oppure della telecinesi.

    Alcune fonti aggiungono poi che Chiara “vide” il presepio, anche se non si capisce esattamente cosa si intenda per presepio.

    La mia è stata quindi per forza di cose un’interpretazione molto personale di questo miracolo che comunque mi pareva valesse la pena di essere raccontato.

    Non c’è bisogno che aggiunga se la dinamica del miracolo è interpretata, tutto il resto, dallo stato d’animo di Chiara al dialogo con le sorelle, fino ai dettagli geografico-architettonici sul dormitorio, è rigorosamente storico. Io, come sempre, mi sono limitato e mettere le pezze sui buchi e a cucire tutto insieme, cercando di non sovrapporre la mia personale visione artistico-spirituale alla storia documentata.

    I commenti – ovviamente – sono graditi! Anche perché è ormai tempo che medito su una pubblicazione di tutto “Il Giorno di Natale” (che trovate in questo blog e/o su Reteblu) e visto che non ho più racconti da scrivere, è tempo che mi decida a farlo.

    Se ne vale la pena, ovviamente.

  2. anonimo il said:

    non preoccuparti amico, ne vale la pena, e detto da un agnostico è tutto dire.

    Ti fai leggere senza pesantezze stilistiche, hai una scrittura molto fluida e incisiva. Certo, forse il tema agiografico è un pò inflazionato, ma credo valga la pena lo stesso tentare.

    Per domani, posso essere alla stazione di Terni alle 10 e mezza del mattino, dimmi se ti va bene…

    ciau andrea

  3. anonimo il said:

    Intendiamoci Arnaldino, non è che tu sia analfabeta. Insomma, una frase la sai costruire, con le virgole e i vari segni di interpunzione al posto giusto, ma questo si impara alle scuole elementari.

    Il problema è che il tuo stile è totalmente privo di identità, di mordente. I tuoi costrutti sono sterili, inefficaci, didascalici, retorici e un po’ svenevoli, totalmente radicati nella tua cultura agiografica e medievale, insomma, di una noia deprimente, almeno per me.

    Posto che a qualcuno possano interessare i contenuti che tratti, resta il fatto che la tua scrittura non è viva, non pulsa, non avvolge, è troppo banale per il lettore, infarcita com’è di luoghi comuni e scelte lessicali al limite dell’ovvietà. Presenti le realtà che vuoi raccontare in modo sciapo, non incuriosisci il lettore, lo fai sbadigliare, non trovi i canali giusti.

    Chi legge deve immergersi nella narrazione, invece qui si resta sul bordo e non si trovano stimoli né ragioni per tuffarsi pienamente, per godere dell’esperienza narrativa.

    Frasi ben scritte, ma prive di quella forza e di quella passione che segnano la differenza tra la letteratura e la grafomania.

    Non ci siamo Arnaldino, puoi fare di meglio.

    Almeno spero.

    Anonimus de Anonimis

  4. ARNALDOCASALI il said:

    E’ commovente vedere che più ti sforzi di essere sgradevole e offensivo e più finisci per lusingarmi, più ti sforzi di distruggere tutto quello che faccio e più ti vengono fuori critiche costruttive e utilissime.

    Davvero non merito tutta questa attenzione e questa stima da parte tua.

    Ad ogni modo condivido pienamente il tuo giudizio sul mio racconto e sul mio stile letterario.

    Guarda, mi annoio anche io a leggere questo racconto. Fortuna che è breve e passa subito.

    E sì, credo anche io che posso fare di meglio. E a dire il vero credo anche di aver fatto, di meglio, in passato.

    E’ un racconto molto estemporaneo, questo, privo di ambizion, appendice di una cosa a cui tengo molto, molto di più, scritto solo per omaggiare un personaggio a cui mi sento molto legato. Avrei preferito poterlo fare senza mettere in campo tanta presunta letteratura, ma come ho detto, scarseggiavano le fonti; ma l’ho scritto per metà mentre si cuoceva la pasta, e per metà mentre preparavo un articolo sulla terza età. Quindi certo un capolavoro non poteva venire. Visto che un genio, io, certo non lo sono.

    Anzi, non solo non sono un genio, ma come dici tu, non sono nemmeno un letterato: sono semplicemente un grafomane.

    E proprio per questo mi fa immensamente piacere che una persona colta e preparata come te perda tempo a recensire queste mie miserie, anche se lo fa con il solo intento di umiliarmi.

    Ma ti assicuro che preferisco una stroncatura bene argomentata come questa, piuttosto che un generico “bel racconto”.

    D’altra parte mi pare che il tuo sia uno dei pochi casi in cui il rancore, il risentimento e la frustrazione non impediscono di mantenere una certa lucidità intellettuale. Anzi, nel tuo caso direi che la cattiveria aguzza l’ingegno.

    E poi, ripeto, apprezzo che tu abbia speso tempo ed energie per scrivere una recensione così dettagliata. Ho l’impressione che per criticare il mio racconto tu ci abbia speso tanto almeno quanto io per scriverlo.

    Grazie davvero.

    Arnaldus De Arnaldis

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