MANZ ALESS

Milano, 1870.

Un ragazzo bussa alla porta di casa Manzoni.

La porta si apre e appare la governante, una donna vecchia e consumata dall’aspetto arcigno e dall’entusiasmo non troppo sviluppato.

“Chi è lei, che vuole?”.

“Sono un ammiratore del signor Manzoni, potrei vederlo?”.

La donna lo conduce in silenzio in un salotto dove su una poltrona nera siede un vecchio dal volto stanco, i capelli radi e candidi e lunghe basette che arrivano fin quasi al mento.

“Signor Manzoni – fa la donna al vecchio – c’è una visita – e poi, al ragazzo – cerchi di non affaticarlo”.

“Buongiorno, signore”.

“Chi sei?”

“Mi chiamo Arnoldo Casoli, sono un suo grandissimo ammiratore, signor Manzoni”.

“Manzoni? Ti chiami Manzoni?… conoscevo qualcuno con questo nome…”.

“Ma no, no! Lei è il signor Manzoni, io sono un suo ammiratore!”.

Suo Ammiratore, che strano nome” dice il vecchio tra sé.

“No, non mi chiamo Ammiratore, mi chiamo Arnoldo, Arnoldo Casoli e sono un suo grande ammiratore; amo moltissimo tutte le sue opere… senta:

Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti…

“Beh, che è ‘sta lagna?”.

“Ma quale lagna! E’ un bellissimo passo dei Promessi sposi, l’ha scritto lei!”

“Chi, la governante?”.

“Ma, no! Lei! Alessandro Manzoni!”

“L’ho scritto io?… veramente?… …   … ah, già, sì… I promessi sposi… e spiégati, pure tu…

… ma insomma… che vuoi da me?”.

“Beh… vorrei conoscere un po’ la sua vita”.

“Ho capito. Sei un giornalista. Per chi lavori?”

“Ehm… per Adesso”.

“Mai sentito. Allora, dimmi. Che vuoi sapere?”.

“Beh, per cominciare, qualcosa sui suoi genitori, sulla sua infanzia…”.

“Ah…beh… dunque: sono nato a Milano il 7 marzo 1785.

Mia madre si chiamava Giulia Beccaria: era una donna bella, vivace e intelligente, figlia di Cesare Beccaria”

“Cesare Beccaria! Quello che ha scritto Dei delitti e delle pene!”

“Bravo. Mio padre era don Pietro Manzoni, un nobile milanese.

Lui era molto diverso da mia madre, era più vecchio di lei, non solo per l’età, ma soprattutto per lo spirito.

Pietro era un tipo pacato, amava la vita tranquilla, Giulia invece era una donna vivace, allegra, avventurosa e non era felice con Pietro, non si sentiva realizzata, anzi, direi piuttosto repressa e insoddisfatta.

Appena nato fui affidato ad una balia, una contadina dolcissima, la ricordo molto bene, si chiamava Caterina, Caterina Pansieri, stavo molto bene con lei…

Quando avevo sei anni i miei genitori si separarono; Pietro restò a Milano e Giulia…”.

“Giulia?”

“Giulia se ne andò libera. Libera”.

“E lei cosa fece?”

“Io fui mandato in collegio. Mi ricordo bene il giorno in cui mamma mi ci portò; era un collegio di padri somaschi. Non mi disse dove andavamo.

Entrai in quel posto pieno di uomini in saio che mi guardavano e lanciavano dei terrificanti e sospettosi sorrisi, io tenevo stretta la mano di mamma, poi un frate…

            – Ehi, Lisandrino, vieni qua, guarda che ti  accio vedere, ti piace questo carillon? Senti come suona!

presi in mano l’oggettino e mi voltai per mostrarlo a mia madre:

           – Mamma, mamma!?!, mamma!!!

Era sparita.

Rimasi in silenzio un secondo: ero rimasto solo in un posto sconosciuto pieno di vecchi signori con la barba lunga e la croce al collo; scoppiai a piangere.

L’istitutore che era lì, vedendomi disperare così, pensò bene di calmarmi dandomi un enorme ceffone in faccia.

Se ci ripenso ancora mi fa male.

Mia madre non la rividi per tredici anni. Rimasi in collegio fino a diciassette”.

“Mi permetta una domanda, signor Manzoni, ma sua madre che fine aveva fatto?”

“Giulia? Giulia se ne era andata a Parigi con il grande amore della sua vita: Carlo Imbonati, un uomo eccezionale: bello, nobile, ricco e di grande cultura, pensa che il suo precettore era stato Giuseppe Parini. Insomma, lo scapolo più desiderato di tutta Milano… e si era messo con una donna separata! Doveva certo essere tanto innamorato.

… Io intanto crescevo tra i frati, che mi diedero un’educazione religiosissima… e naturalmente divenni ateo”.

“Che rapporto aveva con i suoi compagni di scuola?”.

“Beh, non ero molto socievole; già, ero un po’ schivo, secchione, rigido, decisamente noiosetto… un po’ sciapo, insomma… e infatti, sai come mi chiamavano? MANZ ALESS! Ah, ah, ah… coff, coff, coff”.

Manz Aless, cioè Manzoni Alessandro, e allora?”.

“Non conosci il lombardo?”

“No, sono umbro”.

“Manz Aless in milanese significa MANZO LESSATO”.

“Uh, carino!… sottile giuoco di parole…”.

“Comunque col tempo cambiai; divenni anticonformista, ribelle… una volta con i compagni ci tagliammo i capelli corti, pensa!”.

“Quando ha cominciato a scrivere?”

“… no, ancora non scrivevo… anche se… ricordo un sonetto di autoritratto che ci avevano fatto fare a scuola… l’avevo copiazzato un po’ ad Alfieri, ma mi era venuto molto carino… com’è che faceva?…

Gli uomini e gli anni mi diran chi sono, sì, finiva così. Avevo quindici anni.

A diciassette uscii dal collegio, finalmente. Andai a Milano e là mi divertii: frequentavo salotti, teatri, scrivevo poesie, niente di bello comunque, corteggiavo le ballerine… eh, sì. mi divertivo parecchio.

Conobbi anche letterati importanti, sai? Foscolo, Monti…

… Monti mi rimproverava per la vita dissoluta che facevo: Continuate così, bei versi che farete! mi diceva, e aveva ragione”.

“Ma che versi facevate in quel periodo? La gallina, il maiale, il gatto, il cane…?”.

“… Eh, il caro, vecchio Monti! Restammo amici fino alla sua morte”.

“E’ a lui che poi ha dedicato il celebre passo dei Promessi Sposi ‘Addio Monti’?”.

“Cosa?”

“No, niente, era una battuta. Continui pure”.

“Insomma, frequentavo un po’ di tutto; un giorno andai persino da una chiromante, la Maga Dejna.

Allora, che mi dici, o maga?

             – Tu… tu ti chiami.. Alessandro, Alessandro Manzoni.

             – Beh, certo, mi sono presentato prima!

             – Ssssh! Mi deconcentri, suspan!… tua madre…  tua madre si chiama Giulia Beccaria.

             – Si, è vero! Brava!

             – Sssssh! Zitto, non deconcentrarmi… tuo padre…. tuo padre si chiama Giovanni Verri.

             – No, maga, stavolta hai sbagliato; mio padre si chiama Pietro, Pietro Manzoni.

             – Ti dico che tuo padre si chiama Giovanni Verri.

              – E io ti ripeto che si chiama Pietro Manzoni!                                                                             

              – Taci! Il marito di tua madre si chiama Pietro Manzoni!

    Tuo padre si chiama Giovanni Verri.

Poi mi innamorai. Fu un grande amore, un grandissimo amore, non la dimenticherò mai. Si chiamava… uhm… com’è che si chiamava? Ah, sì, Luigina. Luigina Visconti, bellissima. Quanto la amavo!”.

“E come andò a finire?”.

“Sposò un altro”.

“E lei che fece, tentò il suicidio? Scrisse un romanzo?”.

“No, dissi “pazienza” e volsi il mio sguardo altrove.

Un giorno arrivò una lettera di Giulia”.

“Sua madre?”

“Sì. Si rifece viva dopo quattordici anni; mi parlò del suo amore per Carlo Imbonati e mi invitò a Parigi per farmelo conoscere”.

“Che faccia tosta! E lei che fece, strappò la lettera?”.

“No, naturalmente la raggiunsi subito a Parigi. Ma Carlo Imbonati morì poco prima della mia partenza”.

“Che sfiga!”.

“Sì, appunto, lei per avvertirmi mi scrisse qualche riga e io la raggiunsi subito per farle compagnia adesso che era rimasta sola”.

“Sai che palle, con il carattere che aveva, dover vivere con sua madre!”.

“No, al contrario, ci divertivamo molto insieme. Giulia per me era più un’amica che una madre. Cominciai a frequentare i salotti più importanti di Parigi; sai come mi chiamavano? Monsieur Beccaria, ih ih ih, coff coff coff!… Feci amicizia con Claude Fauriel… un carissimo amico”.

“Come conobbe sua moglie?”

“Me la trovò mia madre per paura che mi mettessi con una che non le piacesse. E mi scelse una sposa stupenda: bella, dolce, remissiva e attiva al tempo stesso, e molto buona: Enrichetta, la mia adorata Enrichetta. La creatura più bella che questo mondo abbia mai conosciuto.

Ci sposammo nel 1808, eravamo molto giovani; soprattutto nei primi anni… poi invecchiammo un po’”.

“Quanti anni di differenza c’erano tra di voi?”.

“Sei; sì, lei aveva sei anni meno di me. Io avevo sedici anni e lei ventitré… no, no, forse era il contrario.

Comunque, a parte l’età, c’era una grande differenza tra di noi, di natura religiosa.

Lei era una credente calvinista e io ero un cattolico ateo”.

“Che tipo era Enrichetta?”.

“Te l’ho detto. Una creatura meravigliosa. Nutriva la mia vita, ma mi dava tutto lo spazio che mi serviva. Viveva per me, in silenzio, ma era lei che teneva le redini della famiglia, era un punto di riferimento per tutti noi”.

“Come mai battezzaste la vostra prima figlia con il rito cattolico?”.

“Sinceramente, non lo so bene nemmeno io; ci eravamo sposati con rito calvinista, perché Enrichetta era protestante e tanto a me non interessava il rito, comunque non ci credevo. Invece quando divenni padre… volli battezzarla con rito cattolico… non lo so… Enrichetta cominciò a parlare con l’abate Degola, a consigliarsi con lui. Divenne il suo direttore spirituale, era sempre a casa nostra. Io ascoltavo i suoi discorsi e… beh, in poco tempo diventammo tutti e due profondamente credenti… e cattolici”.

“Ma come è successo? Come accadde che si convertì? Come recuperò la fede?”.

“È stata la volontà di Dio, figliolo”.

“Signor Manzoni – interrompe la governante – è l’ora della sua passeggiata”.

“Adesso devo lasciarti, figliolo, devo andare a prendere un po’ d’aria”.

“Ah… ma, se le va bene, l’accompagno io!”.

E così, il giovane giornalista e il vecchio scrittore escono sottobraccio per le strade di Milano.

Si fermano a pregare un momento nella chiesa di San Fedele. Quando escono, scendendo le scale l’anziano scrittore scivola e viene prontamente sorretto dall’aspirante biografo. “Prima o poi ci sbatterò la testa su questi maledetti gradini” commenta Alessandro.

Poi riprendono la loro passeggiata dirigendosi verso il Duomo.

“Sai, non credere che abbia bisogno di essere accompagnato perché sono vecchio e rimbambito… no… sai, io ho sempre avuto bisogno di qualcuno che mi stesse vicino quando uscivo, anche da giovane… ho sempre avuto molte fobie: ipocondria, paura dei temporali, paura delle pozzanghere, paura di uscire da solo e soprattutto… di restare da solo in mezzo alla folla…

La folla… la folla…

…ho sempre avuto il terrore della folla.

Ricordo una volta… era il 1810, in piazza si festeggiavano le nozze di Napoleone, e nella folla persi di vista Enrichetta… ero terrorizzato: terrorizzato. Trovai rifugio in una chiesa e, per la prima volta in vita mia, pregai.

Sì, pregai. Pregai di  ritrovare Enrichetta sana e salva”.

“E fu esaudito?”.

“Sì, fui esaudito. Ritrovai la mia Enrichetta”.

“Quando scrisse le sue opere più importanti?”.

“Ah… le opere più importanti… le opere…

Beh, praticamente le più importanti le ho fatte quasi tutte intorno al ’21…

Ah, il 1821. È stato un anno d’oro quello. L’anno più prolifico.

Sai, a quei tempi eravamo ancora sotto il governo austriaco, non c’era il Regno d’Italia ancora… non c’era ancora.

Sembrava che fosse venuto il momento di liberarci di quegli oppressori; Vittorio Emanuele doveva venirci in soccorso dal Piemonte… scrissi Marzo 1821 per celebrare l’avvenimento… invece non se ne fece niente… dovetti distruggerla per non correre il rischio di passare dei guai con gli austriaci; poi, dopo quasi trent’anni la riscrissi a memoria…”.

“… E finalmente arriviamo al 5 maggio”

“Perché? Che è successo il cinque maggio?”

“Come che è successo? Eifusiccomeimmobile! La morte di Napoleone, ha scritto un’ode famosissima!”.

“Ah… sì, è vero… ma quella non l’ho scritta mica a maggio. L’ho scritta a luglio…”.

“Il Cinque maggio l’ha scritta a luglio? E perché ha aspettato così tanto?”.

“Ma io non ho aspettato un bel niente! L’ho scritta subito, di getto appena ricevuta la notizia!”.

“Ah, insomma, una notizia flash!”.

“A quei tempi, che vuoi…

Ricordo che ero nel mio studio a leggere alcuni manoscritti sulla peste di Milano quando…

             – Signor Manzoni, signor Manzoni! (pant,pant).

             – Che c’è, che è successo?

             – É morto Napoleone!

             – Cosa? E quando è successo?

             – Ehm… il cinque maggio! Sta scritto qui,  sulla ‘Gazzetta di Milano’, guardi…

             – Fa vedere… ah, hanno già fatto il funerale!

Era un uomo che bisognava ammirare senza poterlo amare. La sua morte mi scosse come se al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale. Fui preso da smania si parlarne e dovetti buttar giù quest’ode, l’unica che, si può dire, improvvisassi in meno di tre giorni.

Enrichetta!

             – Che c’è, Alessandro?

             – Devi farmi un favore. Devi suonare il pianoforte.

             – Va bene. Che ti suono?

             – Non so, fai tu. Qualcosa che mi aiuti a concentrarmi, ho bisogno di musica per  scrivere un’ode.

Enrichetta iniziò a suonare… a suonare… suonare… stette tre giorni a suonare per ispirarmi! Che ragazza d’oro. É anche merito suo se la poesia ha poi avuto successo tra i miei venticinque lettori.

Dopo tre giorni passati a suonare era sfinita… e pensare che era anche incinta”.

“Le diede anche molti figli”.

“Già. La nostra prima figlia fu Giulietta, una bambina bellissima. Ma Enrichetta soffrì molto.

         Giulia: Dottore, come stanno?

         Dottore: La bambina sta bene, è sana e bellissima.

         Alessandro: Ed Enrichetta?

         Dottore: Si rimetterà, ma mi raccomando, non deve avere più figli. Un’altra gravidanza potrebbe esserle fatale.

Dopo Giulietta nacquero altri nove figli. E due morirono prima di nascere.

“Che altro ha fatto di importante nel 1821?”.

“Beh, cominciai a stendere il Fermo e Lucia. Presi spunto da una grida del seicento che avevo letto, in cui si proibivano minacce a curati affinché non celebrassero matrimoni, e cominciai a stendere la storia di due giovani che…”.

“Sì, sì, la conosco. É famosa”.

“Veramente?

Beh, comunque quello fu solo l’inizio. In seguito ho modificato la storia, l’ho tagliata, ampliata, migliorata, ho tolto le parti più sconvenienti, l’ho raffinata, e infine ho sciacquato i panni in Arno”.

“Perché una fontana a Milano non la trovava?”.

“E’ una metafora, idiota. Sono andato a Firenze per ripulire il romanzo di tutte le inflessioni dialettali, tutti i residui lombardi. Doveva essere un romanzo Italiano. E doveva essere scritto in Italiano. Molti amici e conoscenti toscani mi aiutarono a sostituire dei termini o modi di dire prettamente lombardi con altri che si comprendessero anche a Firenze… Cioni, Nicolini… le mie lavandaie! – ride l’austero scrittore – … è stato un lavoro lunghissimo… ci ho lavorato tutta la mia vita…”.

“Beh, non proprio tutta la vita, bona parte!”.

“Non ne abbiamo già parlato di Napoleone?”.

“Mi scusi, continui pure”.

“Insomma, ci ho lavorato tutta la vita…”

“E il risultato è stato eccellente!”.

“No, il risultato è stato I promessi sposi‘”:

“Poi, che altro fece nel ’21?”.

“Dunque…   nel ’21… completai Il conte di Carmagnola, scrissi L’Adelchi, alcuni degli inni sacri… era un periodo bello, bellissimo.

Il periodo più felice della mia vita.

Nel frattempo ci eravamo trasferiti a Milano; Giulia volle portarsi dietro la salma dell’Imbonati, che seppellì nella nostra villa”.

“Che schifo!”.

“Sì, è quello che disse la gente: una famiglia rispettabile come la nostra che si teneva in casa la salma dell’amante della signora Beccaria… veramente una cosa scandalosa. Glie la fecero togliere, l’Imbonati non era una persona rispettabile perché si era messo con una donna sposata, e non gli fu concesso nemmeno di riposare in un cimitero; fu seppellito praticamente sotto una strada”.

“Ed Enrichetta, nel frattempo, lei che faceva?”.

“Enrichetta, anche a causa delle numerose gravidanze stava sempre peggio…”.

“Ma se il dottore aveva detto che non doveva avere altri figli perché ne avete fatti così tanti?”.

“Sono stanco, Casali, torniamo a casa”.

“Veramente mi chiamerei Casoli”.

“Va bene, va bene, ma adesso andiamo”.

Mentre tornano a casa il vecchio scrittore continua a raccontare:

“Enrichetta non faceva che allattare e fare figli, allattare e fare figli… divenne quasi cieca e… a soli quarant’anni…”.

Le parole del vecchio si fermano per un momento sulla sua bocca. Nei suoi occhi lucidi e nel suo volto c’è la sofferenza e la stanchezza di qualcuno che ha perso da troppo tempo una ragione di vita, un punto di riferimento…

poi riprende:

“… Era il giorno di natale del 1833, il natale più brutto della mia vita.

Prima credevo di poter capire un dolore simile. Credevo che l’amore che provavo per lei potesse farmi immaginare il dolore che avrei provato perdendola. È così che pensavo di poter consolare chi fosse provato da una simile sofferenza. Ma mi sbagliavo. Non puoi capirlo finché non lo provi. Non puoi. È un dolore inconcepibile.

Senza Enrichetta era finito. Tutta la nostra famiglia era finita”.

“Però si consolò presto, pochi anni dopo sposò Teresa Borri…”.

“Chi?”.

“Teresa Borri Stampa Manzoni”.

Il vecchio lo guarda perplesso.

“La sua seconda moglie! La celebre vispa Teresa!” (!!??!!)

“Ah… sì… Teresa Borri, Teresa, sì… mah, io ero vecchio ormai… lei era vedova, aveva anche dei figli… uno era appassionato di fotografia… anche se a quei tempi si chiamava in un altro modo”.

“Dagherrotipo”.

“No, che tipo da sgherro!, no… tutto sommato era un bravo ragazzo, educato…”.

“Cosa ricorda con più piacere di Teresa Borri?”.

“Di Teresa?… niente… te l’ho detto, eravamo vecchi ormai, e poi non voleva bene a mia madre… e forse, neanche tanto a me…

…Si lamentava sempre perché la sua camera era vicino al salone e quando ricevevo ospiti lei era infastidita dalle nostre chiacchiere…”.

“Ma allora perché l’ha sposata?”.

“C’era un vuoto in me. Un vuoto che aveva lasciato Enrichetta… non potevo continuare a restare solo, avevo bisogno di compagnia, avevo bisogno di una moglie… ma Teresa non era Enrichetta, no…

… Enrichetta era tutta un’altra cosa…”.

“Senta, cambiamo argomento. Che rapporti aveva con i suoi illustri colleghi?”.

“… di Monti ne abbiamo già parlato… Giusti, sì, con Giusti eravamo molto amici, com’era simpatico quel ragazzo!… andavamo molto d’accordo… è stato spesso ospite in casa mia… e poi Cattaneo, D’Azeglio… tutti carissimi amici”.

“E Foscolo? Prima mi ha detto di averlo frequentato”.

“Sì, l’ho conosciuto a Parigi, quando avevo vent’anni… Lui era più grande di me… sì, eravamo amici, ci assomigliavamo molto a quei tempi, ma poi… io sono cambiato… lui invece è rimasto sempre uguale… bah!”.

“E Garibaldi?”.

“Fu ferito”.

“No, dico, con Garibaldi?”.

“E che è uno scrittore?”.

“No, ma mi è venuto in mente”.

“Garibaldi.. mi è venuto a trovare, una volta. Un grande uomo, veramente un grande uomo”.

“E Goethe? L’ha conosciuto?”.

“Goethe. Oh, sì. Goethe era un grande. Avevamo una stima reciproca. Sai che lui ha anche tradotto in tedesco Il cinque maggio“.

“Di Scott nemmeno ne parliamo…”.

“Se non fosse stato per lui, per Waverley e Ivanohe probabilmente non avrei mai scritto il mio romanzo. Per quanto… forse lui fantasticava un po’ troppo, forse era più un romanziere che uno storico. Aveva questo difetto; ma è stato lui a farmi pensare che il romanzo poteva anche essere un genere nobile, il romanzo storico… ma lui adattava la storia al romanzo, non il romanzo alla storia… lo sai che mi ha dedicato un libro?”

“Veramente? E, senta, di Leopardi che mi dice? Ebbe mai rapporti con lui?”.

“Giacomo Leopardi? L’ho incontrato una volta… a Firenze, ma non abbiamo parlato molto”.

Gian Piero Viesseux a Gino Capponi il 4 settembre 1827:

Manzoni è stato ieri sera da me… mi è parso assai contento della riunione e molto meno timido di quanto si dica. E’ stato simpatico anche con Giordani… ma questi ha rovinato tutto con la sua intemperanza verbale in materia di religione; e  anche Leopardi ne è rimasto scandalizzato.

“Ma le piacciono le sue poesie?”.

“Le mie?”

“No, non le sue, quelle di Leopardi”

“Beh… credo che le Operette Morali siano uno dei migliori scritti in prosa che siano stati mai prodotti in Italia”.

“Però gli facevano concorrenza, sono uscite lo stesso anno dei Promessi Sposi!”.

“Sì, credo sia vero…”.

“E Leopardi? A lui piaceva il suo romanzo?”.

“Ha scritto un romanzo Leopardi?”

Leopardi a P. Brighetti il 30 agosto 1827:

Qui si aspetta Manzoni a momenti. Hai tu veduto il suo romanzo, che fa tanto rumore e che val tanto poco?”

Leopardi a A. Papadopoli il 25 febbraio 1828:

     Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, non ostante molti difetti mi piace assai, ed è certamente opera di grande ingegno.

“Senta, e delle Ultime lettere di Jacopo Ortis cosa mi dice?”.

“È indubbiamente un libro di grande importanza, ma io non credo che si debba parlare d’amore nei romanzi”.

Nel salotto di Casa Manzoni arriva la governante ad interrompere il colloquio dei due:

“Signor Manzoni, è arrivata una lettera dal signor Giuseppe Verdi”.

Arnoldo: “E allora, viva V.E.R.D.I.!”

“Dài qua – fa il vecchio – il caro Giuseppe Verdi… vorrebbe fare un’opera lirica tratta dai Promessi Sposi, ma Piave dice che non ci riesce a fare un libretto dal mio romanzo e io… …”.

“Signor Manzoni… signor Manzoni, che le prende? Si sente male? Signora! Signora corra!… sembra che sia svenuto!”.

“Su, venga – fa la governante al giovane – lo lasci solo, deve riposare, le avevo detto di non farlo affaticare!”

“Ma… non ha… non ha finito di raccontarmi!”.

“E cosa le doveva raccontare?”

“Quello che ha fatto negli ultimi quarant’anni!”.

“Ma cosa vuole che abbia fatto? Non ha fatto niente, niente! Ha scritto trattati noiosi, ha perso una barca di soldi per un’edizione lussuosa del romanzo fatta a sue spese e rovinata dalla concorrenza delle edizioni non autorizzate, ha portato in tribunale La Monnier, e si è occupato della lingua italiana… su, adesso vada, il signor Manzoni deve riposare”.

“Va bene, vado… senta, non è che potrei fermarmi a pranzo, eh? Magari mi cucina un bel piatto di ravioli al ragù, che poi, alla fine, è il sugo di tutta questa storia”

La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha vissuta, e anche un pochino, a chi l’ha raccontata, se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi… beh… sappiate che non ce ne po’ frega’ de meno”.

Terni, marzo 1994

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