LA ROSA D'INVERNO

Oltre il bosco.
La mente vagava per quelle colline.

Si rigirava sul suo lettuccio di paglia e le immagini della celebrazione di pochi attimi prima, dentro la Porziuncola, si mescolavano a ricordi ormai lontani.

I canti, le parole di Francesco. La mano di Dio sopra la sua testa. La gioia semplice della venuta al mondo di Cristo.

Ma il cuore tornava al di là del bosco; sopra quella collina, a San Damiano; alle Poverelle del Signore.

La mente tornava a quella notte, quando l’aveva vista per la prima volta.

Perché? Perché?
– non riusciva a trattenersi dal ripetere – Dove eri prima?

Possibile che in tanti anni non l’avesse mai incontrata? Eppure, più o meno, i giovani di Assisi si conoscevano tutti.

Chissà in quale mondo era rimasta nascosta, tutto quel tempo.

E così la vidi per la prima volta quella notte, nel bosco.
Ed era già troppo tardi.

Aveva seguito le orme di sua sorella, anche nella fuga notturna.
C’erano stati dei colloqui con Francesco prima, certo.

Erano passati appena sedici giorni da quando Francesco aveva assegnato a Chiara il piccolo conventino di San Damiano come luogo di penitenza, e appena qualche mese dalla conversione di Chiara.

La famiglia di Offreduccio, che già aveva fatto scoppiare uno scandalo dopo aver perso la figlia maggiore, tentò di strappare con la forza la secondogenita alla sua scelta, senza riuscire – peraltro – ad ottenere nulla, vista la mansueta e allo stesso tempo virile determinazione dimostrata da Caterina.

Avevamo sentito dire che c’era un’altra ragazza che voleva seguire l’esempio di Francesco, e unirsi a Chiara: sua sorella; ma nessuno dell’allegra brigata l’aveva mai vista, questa sorella, a parte Rufino, che era suo parente.

E quando fu il momento del grande passo Francesco scelse proprio me e Rufino.

Caterina fuggì di casa nel pieno della notte, passando dalla porta dei morti, sul retro: quella chiusa, che si apriva – appunto – solo per far uscire i cadaveri.

Poi l’affannato cammino per le vie deserte di Assisi, l’uscita dalla porta della città, con la complicità di una guardia. E infine la corsa gioiosa per il bosco fino a quando – nel luogo convenuto – non si incontrarono, lei e Bona di Guelfuccio, che la accompagnava, con i due fraticelli.

La vidi così la prima volta, Agnese: l’affanno; il sorriso; i lunghi capelli biondi sciolti che le ricoprivano le spalle come un manto dorato; la torcia in mano; e quegli occhi neri che sprizzavano gioia.

Era piccola, giovanissima. Aveva appena quindici anni, ed era bella.
Era bella.

Non pronunciammo una parola. Sorridemmo e cominciammo a camminare verso la Porziuncola, dove ci aspettavano Francesco con gli altri.

Una grande gioia e una gran confusione in testa mentre gli otto piedi marciavano verso Santa Maria degli Angeli.

Ero felice. Felice di esserci, felice di vedere una ragazza così bella e così giovane donarsi a Dio con tanta gioia e allo stesso tempo tanta temerarietà.
Le sfiorai più di una volta le spalle, in quel breve e lunghissimo cammino. Senza malizia; mi veniva spontaneo. Mi sentivo trascinato verso quella donna senza che questo potesse in alcun modo intaccare le nostre rispettive vocazioni. E sentivo anche, in qualche modo, che Agnese – che ancora si chiamava Caterina – ricambiava quel mio sentimento.

Perché in quello sguardo – quell’unico sguardo che ci eravamo scambiati conoscendoci – avevo visto qualcosa. Avevo visto una luce, una complicità. Come se ci conoscessimo da sempre; come se davvero fossimo state due anime gemelle nell’eternità che si erano ritrovate nella vita.

Arrivarono alla Porziuncola accolti da decine di fiaccole. C’erano tutti, e c’era anche Chiara.

Una gioia immensa, la più grande che avesse mai provato. Tutti riuniti in quella piccola chiesetta; l’aria fresca di quella notte di fine giugno (era il giorno dei Santi Pietro e Paolo). Guardare Francesco mentre le tagliava i capelli, osservarla mentre si allontanava, usciva dalla chiesetta per cambiarsi l’abito secolare e riappariva con il saio francescano e il velo.

Non era stato così emozionante per Chiara. Eppure quello era stato uno dei momenti più importanti dell’intera storia francescana. Lo sapevano tutti: Chiara era stata la prima donna a seguire Francesco; tutti erano profondamente eccitati, ma nello stesso tempo turbati nel pensiero di quello che le sarebbe potuto accadere, nella preoccupazione di dove poterla rifugiare.

Perché sapevano bene che Chiara non avrebbe mai potuto vivere con loro, perché la cosa li avrebbe inevitabilmente associati agli eretici, proprio ora che il Papa li aveva onorati della sua approvazione.

Eppure non era stato così, quella notte con Chiara. Non si era sentito così coinvolto.
Agnese, invece, anche se non l’aveva mai vista prima, era come se fosse sua sorella.

Dopo quella notte Caterina, che Francesco volle ribattezzare Agnese per la sua mansuetudine, andò a vivere con Chiara a San Damiano, dove presto furono raggiunte da altre donne della famiglia, l’altra sorella Beatrice e persino la madre Ortolana, e poi altre ragazze di Assisi: Pacifica, Benvenuta, Cristiana, Amata, Illuminata…

San Damiano era uno dei luoghi più amati da Francesco che, però, ora, non ci andava molto spesso.
In realtà le Povere Dame richiedevano frequentemente la sua compagnia. Francesco, però, preferiva evitare di andare e mandava i suoi frati.
Ovviamente, io ci andavo il più possibile. Si faceva un po’ di tutto: chi era sacerdote diceva messa, noi altri aiutavamo le sorelle nei lavori manuali, recavamo messaggi e notizie. Pregavamo insieme e parlavamo.

Chiara aveva sei mesi meno di me, eppure per me era come una madre. Quando parlava pendevo davvero dalle sue labbra. Era saggia, allegra, dolce e severa.
Agnese, invece, parlava poco; ma amava molto ascoltarmi, qualsiasi cosa le dicessi. Sia che le raccontassi le gesta di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, sia che esprimessi le mie opinioni sulla situazione della Chiesa, i movimenti degli eretici, le crociate in Terrasanta.

E poi le raccontavo di come avevo conosciuto Francesco, come ero passato dal disprezzo per un matto, all’ammirazione, fino alla scelta di seguirlo, e lei era entusiasta di quel racconto. Non si stancava mai di sentirmelo ripetere.

Oppure le parlavo dei miei sogni giovanili, quando volevo diventare un trovatore. Le cantavo anche qualche canzone provenzale, ogni tanto. O le recitavo versi di canzoni d’amore, che Francesco amava rileggere in chiave mistica.

“Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena m’è diletto”

Mi sentivo sempre più unito a lei, ma non credevo che potesse esserci qualcosa di male, in questo. Era mia sorella in Cristo, la mia compagna sul sentiero tracciato da Francesco. Cosa poteva esserci di più bello? Di più alto. Di più puro?

E’ vero, mi accorgevo di desiderare sempre di più un contatto fisico. Quando le nostre mani si sfioravano per qualche ragione sentivo tutta la gioia del mondo scorrermi nelle vene e un brivido attraversarmi il corpo.

Provavo un sentimento di comunione totale perdendomi nei suoi occhi, sentendo, anche se solo per pochi istanti, la sua pelle a contatto con la mia.

Ma non collegavo questo a niente che avesse a che fare con le tentazioni della carne, che pure conoscevo molto bene.

“Meglio sposarsi che ardere” dice san Paolo. Ma io volevo ardere solo nell’amore per Cristo.
Ed era questo tipo di ardore che sentivo per Agnese. Qualcosa che aveva a che fare con l’estasi mistica, non certo con l’amplesso fisico.

Pregava in solitudine di fronte al crocifisso della chiesa, Agnese, una mattina di luglio; quando per la prima volta la sfiorò un pensiero strano.

Per la prima volta pensò a quel giovane frate in modo diverso. Un pensiero dolce, che metteva un po’ paura. Un calore improvviso nel cuore che rischiava di bruciarlo. Lo confessò al Signore guardandolo negli occhi. In quegli occhi teneri e severi del crocifisso di San Damiano.

Fu invece proprio Francesco a suggerirmi che potesse esserci qualcosa di sbagliato in tutto questo.

“Tu ami molto andare dalle Povere Dame” mi disse un giorno.
“Sì, davvero” gli risposi.
E gli parlai di quanto bene mi facessero i momenti che passavo con le nostre sorelle. E di quella straordinaria amicizia con Agnese. Sentivo che lei era per me un po’ quello che Chiara era per lui.
Più che una discepola. Per tutti noi Francesco e Chiara erano una sorta di coppia mistica, due santità che si completavano a vicenda. Come Benedetto e Scolastica. Come Giuseppe e Maria.
E sono convinto che anche Francesco lo pensasse, anche se non parlava quasi mai di Chiara, e non la incontrava molto spesso.

No, non ne parlava quasi mai di Chiara. Ma quando ne parlava, le sue parole si riempivano di rispetto, quasi di venerazione.

Francesco parlava di Chiara come di Madonna Povertà, o della Vergine Maria. Non semplicemente come di una discepola, come – per intenderci – parlava di suor Filippa di Borgo San Pietro, o come un amica, come Jacopa dei Sottesoli, con la quale aveva molta più familiarità ma che – non a caso – chiamava “Frate” Jacopa.
Chiara no. Chiara non era una “frate”, era una donna. Anzi, era La donna. Ma soprattutto, per Francesco, era un punto di riferimento fondamentale, più di qualsiasi altro di noi.

Quando si trovò nel dubbio se la sua vocazione fosse quella dell’apostolato o della vita eremitica, fu a lei che si rivolse, chiedendole di pregare per lui. E quello che lei gli disse, lui fece.

Eppure non la vedeva spesso, Chiara. Anzi, cercava di vederla il meno possibile. E di questo, lei, soffriva.
Un giorno, era inverno, al termine di un incontro a San Damiano, Chiara chiese a Francesco: “Quando ci rivedremo?”. Lui ci pensò un po’, quasi imbarazzato. Poi le rispose: “Quando fioriranno le rose”.

Oggi qualcuno racconta che in quel preciso istante, una rosa sbocciò in mezzo alla neve.

Non credo che sia vero. Almeno, non da un punto di vista botanico. Ma senza dubbio una rosa, quel giorno, sbocciò subito anche nel cuore di Francesco.


Comunque, dopo il nostro colloquio, Francesco mi mandò sempre più raramente a San Damiano.

Non ho mai capito bene (non ho mai osato chiederglielo) se pensava ci fosse il rischio che succedesse qualcosa di sbagliato o semplicemente perché non trovava giusto assecondare i nostri desideri.

Se bisogna digiunare dai cibi che danno troppa gioia al nostro palato, e dai vestiti che troppo calore o tenerezza danno alla nostra pelle, è altrettanto giusto digiunare dalle persone che danno troppa gioia al nostro cuore.

“Se ti avessi sarei ricco più di un re, ma la ricchezza non è fatta più per me”.

Ma con la distanza l’incendio che Agnese aveva fatto divampare nel mio cuore non accennava a placarsi. Anzi, al contrario, cominciavo a sentire più chiaramente anche quelle tendenze che prima non erano emerse, o se lo avevano fatto erano state subito sublimate.

Quella sorella prendeva sempre più la forma di sposa.

Sposa, sì. Dio mio, cosa mi passa per la mente?

Non si volta indietro chi ha messo mano all’aratro

Quante notti ho pensato di fuggire, di correre di nascosto a San Damiano, di gridare il suo nome, di abbracciarla, di baciarla sulla bocca
(sei la mia Signora, Agnese di Dio, e io il tuo vassallo), di stringerla forte, di sentirla dentro di me io dentro di lei

Signore perdonami
 
Una notte mi alzai e uscii dalla mia capannuccia piangendo e gridando forte.

Un sogno meraviglioso e terribile

“Francesco! Francesco!” chiamai.

Francesco si alzò e mi corse incontro.
“Che c’è?”.
“Francesco io sono Lancillotto, che per amore ha tradito il suo signore”.

Francesco non fu duro come mi sarei aspettato. Mi abbracciò e mi accarezzò la testa. Ascoltò tutto in silenzio.
Poi mi spiegò che noi non siamo preti né monaci. Che nemmeno lui è poi così sicuro che non prenderà mai moglie. Che questa vita non è per tutti. Che nessuno è costretto.
Che dovevo fare luce in me e capire quale fosse il disegno di Dio.

Ho riletto il passo del Vangelo sul giovane ricco.

“Se vuoi essere perfetto va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”

Ho pianto tutta la notte. Ho dato l’addio ad Agnese, nel mio cuore.

Appena possibile partirò per una terra più lontana possibile.

Mentre si addormentava rivide nella sua mente le immagini di Maria, così bella da essere scelta dal Signore per essere sua Madre, e di Giuseppe, così innamorato di Dio e di Maria da rinunciare all’amore per amore.


E nel sogno Agnese era Maria e lui era Giuseppe: uniti e distanti, perfetti e incompiuti…
 
 
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