JACOPONE


In mezzo a tanti dubbi e sentimenti giunse la vigilia di Natale.

Frate Iacopone, che sembrava di ora in ora più debole, era però calmo o almeno tale appariva ai frati che lo assistevano. Passò la giornata immerso in una singolare meditazione, nella quale solo in certi momenti aveva l’aria di pregare mentre in altri sembrava preso da pensieri o molto dolci o molto amari, perché lo si vedeva a tratti con gli occhi bagnati di lacrime. Ma non si capiva nemmeno se quel pianto fosse di dolore, e rivolgergli domande era inutile perché raramente l’anziano frate rispondeva alle domande che gli venivano poste.
 
Il tempo si allentava e si stringeva intorno a lui. Tutti i modi di misurare degli uomini erano già lontani.
Com’era leggero questo corpo. E pensare a quanto era stato pesante. Non gli sembrava più nemmeno il suo, anche se sentiva di non averlo ancora lasciato.
Aveva settantasei anni. Ed erano trentotto che voleva liberarsi di quel corpo. Trentotto anni che pensava alla morte, che si sforzava di meditare sul suo cadavere disfatto e trattare il suo corpo vivo come un cadavere. Ma ora sapeva di non essere pronto ancora.
Era la sua insegna, quando si illudeva di vivere la vita come una continua battaglia, ma non aveva mai potuto sapere se fosse il vincitore o lo sconfitto. Certo, non si sentiva come il vincitore
 
Lo sentirono, più di una volta, mormorare fra sé quella lauda che comincia con le parole Iesù nostra fidanza. Del cor somma speranza.
All’ora del vespro chiese ai frati di cantarla per lui, che da anni non poteva più cantare.
 
I frati continuavano ad invitarlo a ricevere i sacramenti dei moribondi, ma lui rispondeva che voleva riceverli dalle mani del suo amico Giovanni della Verna e non da altri. Questo affiggeva molto i fraticelli, perché Giovanni della Verna dimorava a varie giornate di cammino da Collazzone, nulla sapeva dell’aggravarsi di frate Iacopone, e di avvertirlo non c’era tempo.
Qualcuno dei frati si lamentava che frate Iacopone volesse morire al modo degli eretici e dei giudei, e c’era anche chi ricordava come per cinque anni fosse rimasto in stato di scomunica. Ma ogni volta che gli veniva mossa parola su quell’argomento, il vecchio poeta, riaffermava con brevi parole la sua fede, continuando però a dire che non avrebbe ricevuto in nessun caso i sacramenti se non dalle emani di Giovanni della Verna. Frate Egidio arrivò a gridare, ammonendo l’anziano frate che la fede sola non basta alla salvezza, ma Iacopone, sorridendo stranamente, gli rispondeva che la sua salvezza eterna era stata già a repentaglio tante volte, e che di ciò i frati non dovevano darsi pensiero.
 
Trentotto anni di castità feroce e mai, mai un momento di vera purezza, e nemmeno un ricordo che fosse interamente puro, da allora.
Forse solo quella notte, con Vanna, l’ultima. E poi lei morì.
Perché la sentiva così vicina, adesso, ma non riusciva a vederla?
“Sarà possibile riconoscerci?” si domandava Iacopone. “Quale corpo riprenderemo nella morte seconda? Quello del nostro trapasso? Ma è indispensabile riprendere un corpo? Tu non avevi neppure diciassette anni al tuo trapasso e io sono in tutto un altro uomo, non somiglio affatto a quello di allora”
 
In tutti quegli anni di oblio si era sempre sentito colpevole della sua morte. L’aveva dimenticata, forse per difendersi da un ricordo che era il più inquietante dei misteri. L’aveva quasi dimenticata, forse, perché non c’erano né pensieri né parole abbastanza belli per poterla accogliere.

Ma in un angolo non frequentato della sua memoria, là dove il tempo comincia a farsi spirito, era rimasta intatta. Intatta e viva, infinitamente più viva di lui, come quel giorno, quando era fresca e intatta anche nella morte, nel disordine e nella rovina, tra la polvere, le travi e le pietre.
 
L’aveva quasi dimenticata, ma di lei non aveva dimenticato nulla. Non aveva più guardato un fiore, e ormai credeva di non sapere neppure bene come fosse fatto un fiore, ma quegli occhi oscurati vedevano ancora ogni filo dei fiordalisi che quel giorno erano ricamati sulla veste di Vanna. Le sue mani, che da allora avevano sempre sprezzato e temuto di toccare tutto ciò che è morbido e prezioso, sentivano ancora la dolcezza di quello sciamito verde..
 
E per la prima volta gli sembrava di capire adesso, che al di là della concupiscenza abietta e del sospettoso livore della penitenza, dovesse esserci una terza via ancor non conosciuta dagli uomini, tutta da percorrere ma già aperta. “L’uno e l’altro trasformato, in mirabile unitate”. Sì, come se quello dovesse essere finalmente il giorno delle loro nozze.
Adesso che anche lui stava per morire.
Sì, stava per morire. Lo sapeva, ma era come se non ci credesse. Non si crede mai davvero, da vivi, che la morte sia una cosa nostra.
Doveva aggrapparsi alla vita, alla terra, perché di là non c’è nulla a cui aggrapparsi. Non c’era più un mondo, per lui, i vivi e i morti lo respingevano. E del resto era sempre stato così. Sempre sul confine stretto fra due battaglie, e sempre insidiato, più ancora che dalle sconfitte, dall’angoscia che l’una e l’altra battaglia fossero un doppio niente.
 
A notte fonda, essendo ormai prossimo il momento di celebrare la messa della Natività del Signore, i frati udirono passi e parole a voce bassa provenienti dal viottolo che divedeva la loro casa dall’orto del monastero delle Clarisse. Dapprima non ci fecero attenzione, pensando che fosse qualcuno dei villani dei dintorni che si recava in chiesa per tempo. Ma frate Iacopone, come ridestato dal suo sopore, si rizzò a sedere sul letto, e senza mostrare né gioia né tristezza né sorpresa, ma solo un’improvvisa attenzione a quanto avveniva, disse che dovevano aprire l’uscio perché Giovanni della Verna era infine arrivato.
I frati obbedirono subito, stupefatti come dianzi a un miracolo, ed era proprio Giovanni della Verna, lì sulla porta con un compagno, stanchissimi tutt’e due e fradici di neve. Le sue parole furono “Pax et bonum. Sono giunto in tempo” e subito passò nella cella del morente. Li lasciarono soli.
 
“Non è frate Giovanni della Verna, questo qui vicino a me?” pensò Iacopone. Ma come poteva essere qui? Allora era morto davvero?
Amico dei tempi passati, desiderava di rivederlo, prima di morire; gli pareva di dover parlare con lui di tante cose, ma ora non ce la faceva più. Provava a parlargli, ma la sua voce non funzionava, dalla parte dei vivi. E neppure dalla parte dei morti
“Non sono ancora morto del tutto – pensava – Certo sono vivo, se riesco ancora a ragionare al modo degli uomini di legge. Ma non sapeva in quale modo ragioni Dio.
Ora lo capiva, che non si era mai fidato di Dio. Non poteva capire il suo modo di ragionare, e gli uomini non hanno mai il coraggio di non capire.
 
Dopo qualche minuto erano tutti riuniti di nuovo intorno al letto di frate Iacopone, consolatissimi al pensiero che avesse finalmente ricevuto i sacramenti.
Passò più di un’ora. Iacopone mormorava parole indistinte e qualche verso riconoscibile dell’una o l’altra delle sue laude. I frati lo udivano anche ripetere certi versi sull’amor divino e un canto di onore di Maria Santissima nella festa dell’Incarnazione, quello che dice O cor salamandrato de viver sì infocato….
 
Nel primo tempo in timore di servi, nel secondo in timore di figli, nel terzo saremo suoi amici.
Il primo tempo nella paura, il secondo nella fede, il terzo nell’amore.
Nel primo tempo da vecchi, nel secondo saremo giovani, e nel terzo come fanciulli.
 
Cominciarono a suonare le campane che annunciavano la messa di Natale. E in quel momento Iacopone si alzò a sedere, da solo, con decisione, tanto da far pensare ai frati che volesse levarsi dal letto – li guardò con un sguardo intenso, che sembrava oltrepassare le stesse persone, i muri della casa, affondarsi dalle notte. E disse: “Perché avevo sbagliato. Era luce, luce”.
Fra Gentile, credendo che davvero volesse alzarsi, d’istinto si slanciò davanti per sostenerlo, mentre gli altri si inginocchiavano. Ma frate Iacopone ricadde all’indietro, senza violenza, come preso dal sonno.
 
Nel primo tempo spuntarono le ortiche, nel secondo sbocciò la rosa, nel terzo fiorirà il giglio.
Il primo tempo nel gelo dell’inverno, il secondo nel principio di primavera, il terzo nella piena estate.
Il primo tempo fu della carne nemica dello spirito. Il secondo tempo fu quello dello spirito nemico della carne, ma il terzo sarà il tempo dell’unione.
 
A fra Gentile parve che trascorresse un’eternità senza udire altro che il suono delle campane.
In realtà – il vecchio frate lo sapeva – furono solo brevi istanti, e subito Iacopone era passato a più gioiosa vita.
 
Il primo tempo nell’oscurità della notte, l secondo nel chiarore dell’alba, il terzo nello splendore del giorno.
 
Frate Iacopone era morto. Ma l’impressione fu che fosse morto non tanto vinto dal suo male, quanto da uno straordinario eccesso di amore che – traboccando tanto che non potendo egli debolissimo sostenerlo – gli avesse stretto e soffocato il cuore.
 
Ambientato nel 1306
Scritto il 31 dicembre 2006
Estratto da “Il terzo cielo” di Lilia Sebastiani
 

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Un commento su “JACOPONE

  1. Ciprea il said:

    Carissimo Arnaldo… Anche se in ritardo ricambio i tuoi auguri con tutto tutto il cuore!!

    E’ un po’ che non ci si sente, ma sono stata lontana dal pc per cause di forza maggiore!! Ora però ho decisamente un po’ più di calma!

    Ti abbraccio forte forte e a prestissimo spero!

    Miriam

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