IL SANGUE DEI VINTI

Le premesse: Pansa e il Revisionismo

Non ho letto il libro di Giampaolo Pansa, ma – da quanto ne so – è un libro controverso, che ha avuto il coraggio di scoperchiare una pentola ancora bollente.

Mi sono invece occupato, pochi giorni fa, di un libro analogo – I giustizieri – dedicato agli orrendi crimini commessi da alcuni partigiani comunisti di Terni ai danni di presunte spie fasciste. E anche solo l’aver intervistato l’autore mi sta causando non poche critiche.

Non è facile avvicinarsi ad argomenti simili senza essere accusati di essere di destra, di voler fare revisionismo storico, di voler infangare la Resistenza. Quindi ci sono andato con particolare interesse ed entusiasmo, a vedere il film di Michele Soavi, ci ho rinunciato – pensa un po’ – nientemeno che a vedere Angeli e demoni. Dico: un film così, vale la pena di essere visto, se non altro per l’argomento.

Peraltro, se lo avesse fatto Renzo Martinelli potevi star tranquillo che veniva fuori un film fascista e reazionario, strumentale e retorico. Ma magari da Michele Soavi ci si poteva anche aspettare qualcosa di meglio.

Ero pronto a riabilitarlo, Soavi, dopo l’infame Francesco con Raoul Bova, il più brutto e inutile film su san Francesco della storia del cinema e della televisione. Ma ero pronto a perdonarlo, Soavi, pronto a redimermi. Cazzo, l’ho fatto anche con Bellocchio, dopo aver visto Vincere (film imperfetto, barocco e ideologico ma – e questa è la grande novità – bello), non posso farlo con il regista di La Chiesa e Dellamorte Dellamore?

Brutto per dire Brutto

Il problema è che Il sangue dei vinti non è un film. E’ fiction e della peggiore specie (perché in Tv si vedono tante cose belle, dal discreto Mattei al capolavoro Mal’Aria).

La regia, la recitazione, la sceneggiatura, il montaggio, l’orrendo doppiaggio, tutto appartiene alla tradizione della fiction più commerciale e raffazzonata.

Non c’è una singola inquadratura nel film che abbia un qualche elemento di originalità, gli attori (bravi, in altri contesti) sembrano presi da Centovetrine, e anche Michele Placido, che negli ultimi anni aveva dato tante ottime prove al cinema non solo come regista ma anche come attore (con D’Alatri, Monicelli, Tornatore, Moretti) qui dà il peggio di sé, in termini di sbracamento e di retorica.

Dire poi che la sceneggiatura è scritta con i piedi è un eufemismo: retorica e frasi fatte a profusione, dialoghi da fotoromanzo, con qualche innesto squisitamente teatrale. E in fondo non ci si meraviglia quando si va a leggere il curriculum degli sceneggiatori e si scopre uno è al suo primo film, mentre l’altro ha all’attivo capitoli memorabili della storia del cinema come Il trucido e lo sbirro, Thunder III, Superfantagenio, Scusi, lei è normale?, Roma a mano armata, Il ragazzo dal Kimono d’oro, Paura nella città dei morti viventi, Mark il poilziotto spara per primo, Lo squartatore di New York, Il camping del terrore, Assassinio al cimitero etrusco e Alex l’ariete.

Il libro e il film 

Niente da stupirsi, allora, se la sceneggiatura con il libro – titolo a parte – non c’entra niente.

Ma proprio niente.

Di fatto i due geniali sceneggiatori si sono limitati a riprendere – molto vagamente -solo lo spunto del libro, cioè quello di mostrare una "resistenza inedita". Per il resto hanno inventato tutto: personaggi, storie, svolgimenti.

E lo hanno inventato anche male! Basti pensare che il film finisce addirittura con una buona mezz’ora di ritardo.

Al centro della narrazione, infatti, c’è l’omicidio di una donna su cui il commissario-Placido indaga. Ebbene,  il delitto – su cui il film si apre, e del quale le indagini coprono tre quarti del film – viene risolto in modo sbrigativo e demenziale: il protagonista, cioè, dopo aver indagato per trent’anni e aver ritrovato al figlia della vittima, cerca di farsi dare dalla ragazza degli elementi in più sul caso. Elementi che non arrivano mai, e l’incontro tra il vecchio e la ragazza finisce per avere l’unico ruolo di collante per i continui flash-back attraverso i quali la storia è raccontata (e solo per seguire la moda imperante del flash back, visto che questi salti temporali non hanno alcuna giustificazione sul piano narrativo).

Poi, alla fine del film, il vecchio – a sorpresa – svela alla stessa ragazza come sono andate le cose. E tu, spettatore, inevitabilmente gli lanci un’invettiva: ma come? Ci hai lessato le palle per due ore facendoci seguire le tue vicende per trent’anni, e poi avevi capito tutto sin dall’inizio?

L’unica consolazione è che – credi tu – il film, finalmente, è finito. E invece no! Ti tocca subire altri quaranta minuti di narrazione inutile, in cui l’omicidio viene messo totalmente da parte e l’attenzione si concentra sui due fratelli del protagonista che si ammazzano a vicenda.

Volemose bene

Si può essere d’accordo o meno con il revisionismo storico e con l’operazione di Pansa, ma gli va almeno riconosciuto il coraggio di prendere una posizione scomoda e "sputtanare" quelli che per sessant’anni ci sono stati presentati come eroi intoccabili.  E di farlo, oltretutto, andando a toccare gli aspetti davvero più scabrosi e controversa della storia partigiana: perché "i vinti" di cui parla Pansa in massima parte non sono fascisti, ma partigiani stessi, con l’unica colpa di non essere comunisti, oppure preti o giornalisti che avevano denunciato i crimini dei partigiani rossi.

Soavi, invece, riesce a rovesciare completamente l’operazione effettuata da Pansa: innanzittutto gli innocenti scompaiono dalla scena, e a fronteggiarsi sono solo ed esclusivamente Repubblichini e Comunisti.

Il peggio, però, è che Soavi non ha il coraggio di scegliere né il punto di vista dei primi, né quello dei secondi. Li sceglie tutti e due. O nessuno dei due.

Il protagonista, infatti, è un commissario di polizia che lavora per il Regime fascista, ma che in cuor suo ha sposato la causa partigiana. Di fatto, per tutto il film il personaggio di Michele Placido rifiuta di schierarsi da una parte o dall’altra, restando totalmente neutrale anche nei momenti più tragici.

In compenso ha una sorella Repubblichina e un fratello Partigiano, oltre a due genitori in crisi di identità.

Alla fine il messaggio indovinate quale è? La guerra è brutta, e la guerra civile significa ammazzarsi tra fratelli.

I partigiani lottavano per una giusta causa però erano un po’ birichini. I fascisti avevano le loro ragioni ma stavano coi tedeschi che – guarda un po’ che novità – erano proprio cattivi cattivi.

E alla fine, al film che si era presentato come rilettura scomoda e anticonformista della guerra partigiana  non rimane altro da dire che: 

la pace e meglio della guerra, quindi fratelli e sorelle, volemose bene!

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