IL LAUREANDO

Lunedì mi laureo.

Strana sensazione, dopo quasi 14 anni di università.

Perché la mia, devo dire, è una posizione piuttosto anomala. Di certo non completo un normale corso di studi, che con il vecchio ordinamento poteva durare cinque, sei, sette anni al massimo, ma proprio se eri un fuori corso impenitente.

I miei amici e compagni di università che sono arrivati alla laurea, ci sono arrivati – al più tardi – nel 2001.

Eppure io non sono nemmeno uno di quelli che riprende in mano gli studi dopo anni e anni, in età matura e con una carriera avviata.

Mi ha fatto effetto leggere, qualche mese fa, un articolo di Luigi Accattoli in cui raccontava la sua laurea a sessant’anni. Gli mancava solo la tesi, e aveva adattato uno dei suoi libri più conosciuti, Quando il papa chiede perdono.

Non è strano che un giornalista non sia laureato. Nella mia redazione lo è uno solo su cinque.

Ma per me, dicevo, non è come per Accattoli. Perché io, l’università, non l’ho mai lasciata. Solo che sono stato un po’ lentino.

Prima per lentezza fisiologica. Perché sono lento in tutto. Poi è arrivato il lavoro, poi i lavori, poi DiTuttoDiPiù.

La mia storia universitaria ha attraversato molte ere, sia personali sia accademiche. Nel senso che in mezzo c’è stato lo spaccamento in due della Facoltà di Lettere della "Sapienza" dovuto ad un litigio tra baroni, e che vede ora uno stesso dipartimento diviso in Lettere e Scienze umanistiche.

Poi c’è stata la Riforma, il trepiùddue eccetera eccetera.

Mi sono iscritto all’università nel novembre del 1994. Ed ero un frequentante estremo. Nel senso che ho frequentato praticamente tutti gli esami che ho dato. Credo solo un paio su 20 di averli dati da non frequentante.

Facevo il pendolare e prendevo il treno alle 6.30 per stare a lezione alle 8. Almeno tre volte a setttimana. Poi ogni tanto mi fermavo a dormire da Nonna, ogni tanto da Zia. Qualche volta da Eleonora, che studiava con me. Compagna di università dopo essere stata compagna di scuola alle elementari.

Ovviamente arrivavo sempre tardi a lezione. Io avevo la mezz’ora accademica. I miei professori ancora si ricordano di me come "Quello che arrivava tardi". Sai com’è, in un modo o nell’altro devi pure farti notare…

Ho sempre proceduto con una certa lentezza negli esami, anche perché più di una volta ho rifiutato il voto (all’esame di Letteratura italiana rifiutai 26, e quando tornai mi diedero 27! E pensare che io puntavo al 28!).

Il 28 non sono mai riuscito a prenderlo. Il 24 nemmeno. La mia regola era non accettare sotto il 24, ma se un esame mi piaceva in modo particolare puntavo anche al 28, o addirittura al 30.

Alla fine, invece, 24 non l’ho preso mai. Una volta mi hanno dato 23. Ho rifiutato, e la volta dopo ho preso 26. Per il resto, da 25 a 30 e lode ho preso di tutto. Tranne il 28.

L’ambito 28.

All’ultimo esame avevo, in commissione, la professoressa più severa e temuta del Dipartimento. Il terrore degli aspiranti medievisti. Feci un esame praticamente perfetto, e lei disse: "Per me è 28". Io tutto contento. Finalmente il 28.

Invece, quando arrivai dal titolare della Cattedra, quello mi fece: "Se ha preso 28 con lei, per noi è 30!".

Niente, il 28 non sono mai riuscito a prenderlo. Il 27, invece… maledetto 27. Il primo l’ho preso al secondo esame, Storia del Cristianesimo. E ci poteva pure stare. Il problema è che quando due anni dopo tornai per la seconda annualità il professore mi fece: "Lei quanto aveva preso l’altra volta? Ah, bene, allora le darò 27 anche stavolta!".

Poi ci fu quello di letteratura italiana, e poi di Storia della lingua. Un altro dei miei esami preferiti che non mi diede, però, la soddisfazione del 28. E infine Storia Moderna. L’esame più assurdo, l’unico "collettivo", preparato con altre 2 persone.

Andammo all’esame in 3. Le altre due persone fecero una pessima figura. Praticamente scena muta. Io me la cavai piuttosto bene. Il professore non ebbe il coraggio di darci il voto unico – come era prassi – visto che la disparità era enorme. Però non ci diede nemmeno un vero e proprio voto separato: fece una specie di "media smezzata". A me 27, a loro 26.

Nei primi anni di università facevo mediamente un esame a sessione. Raramente di più. Nel 1999, mentre Cristina – una delle amiche conosciute alle lezioni di Storia Medievale – si laureava, io iniziavo a fare il giornalista collaborando con Adesso. Ricordo che dopo aver scritto sul primo numero sparii dalla redazione per fare un paio di esami. Una volta tornato, però, non l’ho lasciato più. E gli esami sono restati lì.

Il 2001 resta nella mia storia accademica come l’anno senza esami; anche perché a complicare ancora di più le cose ci si era messo il Servizio civile, iniziato a settembre e il lavoro al Giornale dell’Umbria già da gennaio a cui – un anno dopo – si sarebbe aggiunto quello in Curia. E ancora, il teatro con la Mapa, di cui entrai a far parte alla fine del ’99. 

Eppure, io che non riuscivo a fare due esami nella stessa sessione quando nella vita non facevo nient’altro se non guardare la televisione e scrivere racconti, ebbene io nel giugno del 2002 riuscii – ormai non frequentante – a finire gil esami mentre:
– facevo il servizio civile
– preparavo lo spettacolo teatrale "M" che per la prima volta mi vedeva protagonista assoluto.
– conoscevo, mi innamoravo e mi fidanzavo con Agnieszka.
– lavoravo al Giornale dell’Umbria
– lavoravo nella Curia diocesana
– assumevo la direzione e la proprietà di Adesso.

E’ stato allora che ho capito che il mio problema non è la quantità di cose da fare, ma la voglia di farle.

Il 4 ottobre 2002 apro ufficialmente la lavorazione della tesi. L’avevo chiesta, in realtà, nel marzo del 1997 alla professoressa di storia medievale Edith Pasztor. Che però andò in pensione pochi mesi dopo. In cinque anni avevo continuato a rumiginarci sopra, sempre più convinto. Eppure – a parte parlarne con chiunuqe – non avevo fatto niente.

I primi mesi sono dedicati allo studio. Cerco libri ovunque; passo qualche mattinata – con Agnie, che anche lei prepara la tesi – nella biblioteca della Porziuncola, ad Assisi. Mi leggo tutte le fonti.

La stesura vera e propria comincia nell’aprile del 2003. Giusto giuto cinque anni fa. E procede per blocchi e per strappi.

Anche perché, ancora una volta, di cose – in questi cinque anni – me ne capitano tante. E ogni volta che sono lì lì per concludere succede qualcosa che interrompe il lavoro.

La svolta definitiva arriva nel maggio del 2007, subito dopo che  – il 28 aprile – con Agnie abbiamo inaugurato la casa di Collescipoli.

Quella della casa – da trovare, arredare, abitare – era stata l’ultima delle ‘distrazioni’ dalla tesi (tra le altre, dal 2002 ho contato la morte di mia nonna, l’elezione del nuovo papa, l’organizzazione di due edizioni del filmfestival popoli e religioni).

Così a maggio, dopo circa un anno di stallo, riprendo in mano la tesi: la rivedo tutta, mi rimetto a scrivere. La porto avanti senza fermarmi. Le dedico tutto il (poco) tempo libero; trascuro Agnie e la perdo; perdo anche la direzione artistica del Festival, ma stavolta non mi fermo: continuo ad andare avanti.

Il 4 ottobre 2007 dichiaro ufficialmente chiusa la stesura, dopo aver concluso e corretto l’ultimo capitolo.

Ci lavoro tutta la notte tra il 3 e il 4 ottobre, fino alle 4 del mattino, poi vado alla messa notturna allo Speco francescano.

In realtà i tempi saranno ancora lunghi, perché sono usciti i calendari delle sessioni di laurea e so che – comunque – non mi potrò laureare prima di aprile.

Ma io, fretta, non ce l’ho avuta mai in vita mia.

Interrompo il lavoro per preparare la terza edizione del Festival. Poi arriva il Natale e, insomma, fino a gennaio inoltrato non ci metto più mano, alla tesi. Anche perché ormai c’è poco da fare. Si tratta solo di farla correggere al professore, trovare un correlatore, occuparsi delle pratiche burocratiche. Ed è l’occupazione dell’inverno: prima i vari pagamenti, i fogli da firmare, la ricerca di tutti i documenti vecchi, gli statini con i voti degli esami. Insomma, un tuffo nel passato.

Poi, il 21 febbraio, consegno la tesi in segreteria. Una copia tutt’altro che definitiva. Perché una volta chiuse le formalità, si ricomincia a lavorare nel merito. Comincio a correggere, e intanto studio, approfondisco seguendo le direttive del relatore, passo intere giornate in biblioteca, soprattutto all’Antonianum dove – vergogna – non ero mai stato prima.

E’ bello. Sì, è bello ritrovarsi in biblioteca, in mezzo ai libri, sfogliare volumi antichi, dopo aver scritto la tesi per cinque anni nel tuo ufficio, nei ritagli di tempo, nella pausa pranzo, la sera dopo cena o la domenica, usando quasi esclusivamente internet come canale di consultazione.

Il correlatore mi chiede una sorta di sintesi di tutto il mio lavoro. Insomma, quelle famose conclusioni che mi ero fino ad ora rifiutato di fare. Così le faccio, e mi diverto anche: è l’ultimo atto. Le conclusioni, e la copia definitiva della tesi, sono pronte a metà aprile.

Poi c’è solo qualche piccola aggiunta, una ricerca bibliografica che non vuole fermarsi, l’ansia crescente, la stampa – ancora una volta – in tre versioni diverse perché ogni volta che vado in copisteria ho fatto qualche modifica.

L’ansia crescente…

E Adesso?

Che fare adesso? A tre giorni dalla discussione? Rileggermi un’altra volta una tesi che so ormai a memoria?

Preparare qualche bel discorsetto?

Oppure cominciare a leggere – anche se è troppo tardi, ma giusto per ingannare il tempo – Come si fa una tesi di laurea di Umberto Eco?

Come mi vestirò? Come parlerò? E chi ci sarà, vicino a me, lunedì mattina?

Perché tutti ti dicono che vogliono starci, ma poi in pochi ci saranno davvero.

Io poi, per anni ho detto che quel giorno volevo essere da solo. Che nemmeno i miei ci volevo.

Mah.

Non parliamo poi della Festa, perché non riesco nemmeno a pensarci. Prima bisogna vedere se c’è da festeggiare! Mi dico.

Perché i dubbi, adesso, arrivano tutti. Per anni ero convinto di avere in mano una tesi geniale, e ora mi chiedo se è così, o se ho scritto una massa di baggianate!

E poi c’è il dopo.

Il grande vuoto. E se viene a chi ha studiato quattro anni, cosa dovrebbe provare chi finisce l’università dopo quattordici?

Di solito dopo l’università si cerca lavoro. Il lavoro io ce l’ho, ma un’identità ancora no. E’ vero, come dice qualcuno, che sto solo giocando. E riesco in qualche modo miracoloso a mantenermi giocando, ma il lavoro è un’altra cosa. Basta leggere il mio profilo su questo blog per capire che non ho ancora deciso cosa voglio fare da grande.

E allora dopo verrà la Resa dei conti. Su tutti i fronti.

Lo so. Devo fare i conti con il lavoro, con l’amore, con la panza, con il festival, con Dio, con l’amicizia, con il tempo, con le mie ambizioni, con il mio stile di vita e pure con l’uso che faccio di questo blog. Insomma, con tutto. Questo è l’anno zero della mia vita.

E non sarà facile.

E allora sì, forse un bell’ in bocca al lupo ci starebbe bene.

Però vi avverto: non posso rispondere "crepi".

Perché la mia tesi è su san Francesco.

 

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4 commenti su “IL LAUREANDO

  1. anonimo il said:

    Hey Arnaldo…. Un in bocca al lupo te lo faccio pure io… E ti dico solamente di viverti questo momento senza pensare al dopo… Sembra banale ma spesso ci rovianiamo il presente a causa dell’ansia x il fututo… Tutto andrà alla grande se starai calmo e contento per essere in procinto di raggiungere un traguardo importante della vita. Il “poi” si vedrà… Boh… Forse ho scritto davvero un sacco di banalità ma spero che ti siano di conforto… Anche solo nell’istante in cui le leggi…Un abbraccio grande e ricordati di rilassarti in questi giorni… Tanto quello che dovevi fare l’hai fatto… Relax totale!!! Dormi, leggi, esci a fare una passeggiata e preparati il discorso in tutta tranquillità…

    A presto… Baci, Anto (GdU) 🙂

  2. anonimo il said:

    In bocca al lupo anche da parte mia, ovviamente!

    ..poi se a fine maggio sei a terni ci possiamo beccare che mi hanno comunicato finalmente la data della conferenza (vedi blog) 😉

    ciau andrea

  3. AltroMestiere il said:

    Anch’io non ho fretta.

    Ho letto questo post adesso dopo più di quattro mesi dalla tua laurea. Anzi, dall’anno zero della tua vita. Beh… leggerlo mi ha gettato addosso un pò di malinconia. Però a volte fa bene anche quella. Oggi è una giornata particolare, il sole c’è ma è come se non si volesse far notare troppo. E tu? Com’è adesso che ti sei laureato? Sei cresciuto? Hai chiarito con Dio, con il tempo, con la panza? E con San Francesco? C’hai parlato?

    Io no.

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