Sweat Baby Sweat

di Arnaldo Casali

Nei film comici spesso una coppia sorpresa a letto da un bambino, si giustifica dicendo che stava facendo ginnastica.

In Sweat Baby Sweat di Jan Martens, presentato all’edizione 2016 del Festival della Creazione contemporanea di Terni, succede esattamente il contrario. Lo spettacolo vorrebbe raccontare “un rituale di accoppiamento moderno: ingenuo, sensuale, tenero e doloroso, che al tempo stesso conforta e confronta”. Invece ci mostra semplicemente due persone che fanno ginnastica. Per un’interminabile ora.

Kimmy Ligtvoet e Steven Michel, i due performer (nel teatro contemporaneo si dice così, d’altra parte non si può dire attori – perché non recitano, e non si può dire danzatori – perché non danzano) restano avvinghiati l’una all’altro per 60 minuti, senza che una sola goccia di sensualità cada sul pubblico.

Di sudore, quello sì, quello scorre a fiumi. Ettolitri ne precipitano sul tappeto di plastica, perché i due poveretti fanno una fatica bestiale, ad arrampicarsi tutto il tempo l’uno sull’altro. Un po’ ginnasti, un po’ equilibristi. Di certo non amanti: l’amplesso evocato è totalmente meccanico, non c’è niente che suggerisca un minimo di passione, di dolcezza, di conflitto. E si resta freddi, a osservare sempre più stanchi i sempre più stanchi contorsionisti.

A risollevare gli animi – e le sorti di uno spettacolo altrimenti insostenibile – ai tempi supplementari, c’è il finale affidato ad una bellissima canzone d’amore, in cui fa irruzione anche – finalmente – un po’ di ironia.

Il brano, voce femminile e chitarra, è infatti accompagnato sullo schermo dal testo, in stile karaoke. Solo che a un certo punto, le parole sullo schermo e quelle cantante non coincidono più perché – canta la donna – “adesso voglio cantare da sola”. Così mentre la voce prosegue la lunghissima canzone (“una canzone che dura quattro ore” recita il testo), le scritte sullo schermo iniziano a collezionare frasi non-sense e citazioni sparse che attingono all’intera storia della musica leggera, da Aretha Franklin a Lady Gaga.

E così alla fine l’applauso, questo spettacolo sulla fatica della vita di coppia e su quella dello spettatore di uno spettacolo sulla fatica di coppia, te lo strappa lo stesso.

 

 

 

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