LA PESTE

13 marzo 213

Adesso capiva a che serve una casa grande.

Valentino era cresciuto in una piccola reggia, e da quando se ne era andato per conto suo, aveva sempre vissuto in ambienti minuscoli, di una o due stanze. Non era solo una scelta di povertà: lui la trovava proprio comoda, ci si sentiva a suo agio, in una cella.

Era come Castagna, che si andava sempre ad accomodare sotto sedie o tavoli, o coperte: andava in cerca di un riparo, e il padrone faceva lo stesso: più che una casa voleva una cuccia. Quando entrava in una villa patrizia gli veniva la malinconia a vedere tutte quelle stanze vuote, quegli ambienti morti, puliti ogni giorno, decorati con meravigliosi affreschi ma che nessuno si godeva. Le ville di campagna, poi, gli mettevano ansia, con i loro giardini bellissimi e inutilizzati, destinati a stupire i visitatori e ad accogliere il padrone di casa una o due volte all’anno. E quanto era triste fare il bagno nelle terme personali? Quanto era più bello andare in quelle pubbliche, e incontrare gente, discutere, scherzare…

Valentino si sentiva protetto, nella sua stanzetta, si sentiva al sicuro, si sentiva a casa. Quando era stato in prigione questa sua attitudine gli era risultata molto utile, perché in quei lunghi mesi passati dentro un pozzo gli era mancato tutto tranne che lo spazio.

Le grandi ville, per Valentino, erano una grande ostentazione di miseria. Già, perché per quanto tu possa avere, sarà sempre poco rispetto al Tutto. Dico bene? E l’unico modo per avere tutto è non avere niente. Perché se non hai niente, non hai distrazioni, e il Tutto riesci a godertelo. Se hai ricchezze – diceva sempre il nostro – passi tutta la vita a difenderle o moltiplicarle. Ma se non hai niente, allora sì che scopri quanto è ricco il mondo.

Ogni volta che vedeva una villa in costruzione pensava alla parabola di quell’uomo che passa tutta la vita ad accumulare ricchezze e quando viene il momento di godersele muore. Pensava a quanta gente passa la vita a costruirsi la vita, anziché viverla.

Valentino si accontentava di un piccolo giaciglio perché casa sua era il mondo intero, e voleva goderselo tutto, il mondo, e goderselo alla grande. Era bello mangiare ogni giorno in un posto diverso, essere sempre ospite, sempre pellegrino, avere tutto senza possedere niente.

Solo chi non possiede niente possiede davvero il mondo intero, Valentino lo sapeva bene. Non avere una casa ti porta ad uscire sempre e non chiudere mai la porta. A non accomodarti mai, a non legarti a ciò che è effimero e vano. Questa non è miseria: questa è libertà. E poi in una casa piccola Valentino si sentiva più sicuro: una camera la controlli meglio di una villa e fatichi assai meno a tenerla pulita! E poi ci sono meno insidie perchè se arriva un intruso lo vedi subito, e anche un fantasma: non devi stare due ore ad aprire tutte le porte e a guardare sotto tutti i letti.

Ecco, adesso invece Valentino lo capiva a che cosa serve, avere una casa grande: serve quando c’è un’epidemia, e non puoi uscire.

Adesso sì che li invidiava, quelli che potevano passeggiare per ore nei loro parchi privati, che potevano cambiare camera ogni ora, vedere un sacco di cose belle senza uscire di casa, immergersi nelle letture di volumi pescati a caso dalle loro immense biblioteche, fare lunghi bagni nelle terme, visitare le cantine per scegliere il vino da servire a cena, e correre, respirare l’aria fresca, camminare nei sentieri dei loro possedimenti, curare gli ulivi e rotolarsi nei prati dei loro giardini.

Lui, invece, adesso si sentiva davvero un leone in gabbia. E così, in piena notte, apriva la porta, usciva, ascoltava il silenzio della città e faceva quattro passi senza allontanarsi troppo, tremando più che dal freddo dalla paura, ma non sapeva nemmeno lui se aveva più paura che qualcuno lo scoprisse o che il morbo lo infettasse.

C’era il coprifuoco da una settimana ormai, ed era stata una settimana lunga e folle.

La città, all’improvviso, senza nemmeno avere il tempo di accorgersi di che cosa stesse succedendo, si era risvegliata in un incubo.

Solo sette giorni prima si girava per le strade che era una bellezza, alla taverna del Britannico si beveva e si giocava come sempre, i politici arringavano le folle nelle piazze, il mercato brulicava di gente, i templi erano pieni di fedeli e tutti erano impegnati a discutere con veeemenza degli argomenti più stupidi, come la misteriosa scomparsa di Bugo, un cantante che – qualche giorno prima – nel bel mezzo di un esibizione era uscito di scena e aveva fatto perdere le sue tracce. E c’era chi gli dava ragione, e chi dava ragione al buffone con cui aveva litigato e che (si diceva) era il responsabile di quella scomparsa.

La peste uccideva già, ma lontano. Giungevano voci, ma erano solo voci. Un’eco lontana di una tragedia che non ci riguardava. Perchè da noi non ci sarebbe arrivata, la peste, questo era certo, figuriamoci.

Noi siamo gente pulita – aveva rassicurato Lucio in un comizio – la nostra civiltà è rinomata in tutto il mondo per l’igiene, e invece lo sappiamo tutti cosa succede, in oriente: si lasciano andare a rituali promiscui e mangiano topi vivi!”.

Quando però il morbo era arrivato a Roma, Lucio aveva cambiato versione, e si era messo ad accusare i pagani: “Questa peste uccide chi adora i falsi Dei – aveva sentenziato – Il Signore proteggerà il nostro popolo se tutti si convertiranno alla Vera Fede”.

Intanto Proximo aveva blindato la città serrando tutte le porte, ma il male non si era fatto intimorire e come un implacabile domino aveva scavalcato le mura e raggiunto anche Interamna.

Mentre il contagio si propagava, dotti, medici e sapienti continuavano a discutere. Si discuteva nelle piazze e nei mercati, nei templi e nelle case. C’è chi dava un nome a questo morbo chi gliene dava un altro, chi era convinto che avrebbe ucciso l’intera popolazione e chi sosteneva che fosse poco più che una banale febbre. Si diceva che in realtà uccideva solo i vecchi, si diceva che per guarire bastava bere acqua calda, altri sostenevano che si propagasse nelle strade, e che quindi per proteggersi bisognasse lasciare le scarpe fuori di casa.

Molti, poi, dicevano che la peste non esisteva affatto, che era una beffa ordita dai barbari per minare l’impero; altri ancora dicevano il contrario, che era una menzogna sì – ma opera delle stesse gerarchie come pretesto per giustificare misure repressive e impedire riunioni politiche.

Lucio, da parte sua, continuava a dire che era un castigo divino per punire una città ancora infestata dal paganesimo, e i pagani sostenevano che era una trovata di Lucio per mettere la città nelle mani dei cristiani.

Osti e mercanti erano furibondi, non facevano che parlare dei guadagni mancati, “e chi ci paga a noi, se chiudete negozi e taverne?” e polemizzavano, e scendevano in piazza a protestare, e mugugnavano e borbottavano. E dicevano che c’è modo e modo per fronteggiare la peste, e che così si metteva in ginocchio l’intera economia cittadina, e che quando la peste se ne fosse andata avrebbe lasciato comunque una città fantasma e va bene i malati va bene i morti ma si deve pur portare a casa la pagnotta e allora bisognava fare questo e bisognava fare quello per risolvere il problema in modo intelligente.

La verità è che nessuno ci capiva niente, di quello che stava succedendo. E proprio perché nessuno ci capiva niente, tutti pensavano di aver capito tutto e pretendevano di spiegarlo agli altri.

Intanto ogni giorno si contavano i morti, gli ammalati, i guariti, gli infetti. E insieme al numero dei contagati cresceva l’angoscia. Le autorità, da parte, loro, non sapendo che pesci prendere, cercavano semplicemente di isolare gli ammalati e convincere la gente a non uscire di casa, e visto che non riuscivano a convincerla, avevano finito per costringerla.

Da quando il primo abitante di Interamna era stato colpito da quella misteriosa malattia, ogni giorno erano stati emanati nuovi decreti per cercare di bloccare quella frana che stava investendo la Città del Drago: il primo giorno erano stati chiusi i templi, il secondo giorno le taverne, il terzo i mercati, il quarto – finalmente – le terme e le palestre. Il quinto giorno persino i parchi pubblici, il sesto era stata vietata qualsiasi forma di assembramento.

Il settimo, quando i contagiati in città erano arrivati a settantaquattro, era stato proibito addirittura di uscire di casa.

Da parte sua Valentino, sin dal terzo giorno, con un gesto inaudito aveva sospeso qualsiasi celebrazione e qualsiasi preghiera comune in tutta la città, generando la rivolta di molti cristiani.

Chi ha lanciato la peste? – aveva tuonato Lucio dalla basilica – è Satana! Chi impedisce di pregare ai fedeli? E’ Satana! Chi semina un panico generale fra la gente? E’ lui! Chi vuol cancellare l’umanità dalla faccia della terra? E’ Satana, l’omicida che, come leone ruggente, va in giro, cercando chi divorare! Chi vuol convincere l’uomo che Dio lo ha abbandonato? E’ Satana, sempre geloso dell’uomo! Chi ha fatto comparire una civiltà senza Dio, dove il benessere terreno sarebbe la felicità senza fine? E’ ancora lui, il principe della menzogna!”

Gli abitanti di Interamna erano passati in pochi giorni dalla diffidenza al panico: andavano in giro coprendosi mani e volto con i sistemi più improbabili: in tanti andavano in giro bendati come mummie, quasi che volessero seppellirsi prima ancora di ammalarsi; altri, poi, si erano accaparrati delle maschere di attori, e le indossavano convinti che li avrebbe protetti dal contagio. Quelli che credevano di essere i più furbi, indossavano le maschere persino dentro casa, senza riuscire a proteggersi da sé stessi e dalla propria stupidità.

Molti cristiani, al contrario, incoraggiati da Lucio, avevando continuato a celebrare la messa disobbedendo a Valentino e contribuendo a far proliferare l’epidemia.

Il Vescovo e il Duoviro si erano scontrati apertamente in piazza, di fronte alla basilica.

Ho proibito di celebrare qualsiasi messa!” aveva gridato Valentino.

Non puoi impedirci di organizzare processioni per invocare l’aiuto del Signore! Il messaggio è più chiaro che mai: dietro queste situazioni così drammatiche e queste agonie che i figli di Dio sono costretti a subire oggi, c’è Dio che ha il suo piano! Solo Lui può trasformare il male in bene e lo sta già facendo!”.

Che ne sai tu di Dio, che fino all’altroieri ammazzavi chi ci credeva!”

Ero un peccatore, è vero! Ma oggi sono un uomo nuovo! Oggi sono più cristiano di te!”

Io sono il Vescovo – aveva urlato Valentino, di fronte ad una folla esterrefatta – e tu, in quanto cristiano, mi devi obbedienza!”.

Lucio ha ragione – aveva protestato Sara – Non possiamo abbandonare Dio, non possiamo spegnere la preghiera!”.

Pregate – aveva risposto il Vescovo – pregate tanto, pregate tutto il giorno. Ma pregate da soli”.

Ci stai togliendo il corpo di Cristo” aveva detto Lilia indignata.

Ma era proprio a Lilia, a Serapia e a Fabio, che pensava Valentino. Era per loro, soprattutto, che aveva paura. Fabio era già gravemente malato, Serapia era gracilissima, aveva rischiato di morire appena nata; per entrambi quel morbo sarebbe stato fatale. E Valentino non voleva – non lo avrebbe potuto sopportare – che Lilia soffrisse ancora.

Ripensava terrorizzato ai racconti sulla peste antonina che trent’anni prima aveva ucciso quasi venti milioni di persone.

Valentino c’era nato, proprio nel mezzo di quella catastrofe. Era esplosa dieci anni prima che lui nascesse ed era finita quando aveva cinque anni. Non ricordava nulla, lui, ma la madre gliene aveva parlato tante volte, e ogni volta che ne parlava i suoi occhi si riempivano di orrore.

Come tutte le epidemie, era stata portata a Roma dall’esercito, di ritorno dalle campagne militari contro i Parti, e aveva ucciso persino l’imperatore Lucio Vero.

Era apparsa per la prima volta durante l’assedio a Seleucia al Tigri, l’antica Babilonia, e da lì era arrivata alle legioni stanziate lungo il Reno, in Gallia, e poi a Roma.

Non si era mai vista una peste così fatale e orribile. Cominciava con dolori acuti, una vertigine improvvisa, poi febbre, diarrea e infiammazioni alla gola, e dopo nove giorni sul corpo e soprattutto sul viso della vittima apparivano macchie rosse, ferite e pustole come quelle dei lebbrosi.

Sconvolti dal disastro, molti si erano affidati alla magia: un verso che il ciarlatano Alessandro di Abonutico aveva spedito a tutte le nazioni durante la pestilenza era stato visto scritto ovunque sulle porte, e in particolare in quelle case che erano rimaste vuote di abitanti.

Quando Valentino era nato nella capitale morivano duemila persone al giorno; dopo quindici anni la malattia si era portata via un terzo della popolazione dell’impero; intere città avevano perso tutti i loro abitanti.

Dopo Lucio Vero la peste aveva ucciso anche l’imperatore Marco Aurelio che tuttavia – prima di morire – aveva detto che la pestilenza era meno letale della menzogna, del comportamento maligno e della mancanza di comprensione.

Per fuggire dall’epidemia i Tacito, come tante altre famiglie patrizie, avevano lasciato Interamna e si erano rifugiati in Sabina, a Villa Cotta. Proprio qui era nato e aveva fatto i primi passi il piccolo rampollo del casato.

Se la sua casa era il mondo, quella casa era un mondo: in vent’anni di soggiorni sabini Valentino non si era mai stancato di esplorare le stanze e i boschi, di correre per i lunghi corridoi e prendere il sole nelle immense terrazze.

Ah, quanto avrebbe voluto rifugiasi anche adesso nella sua villa in Sabina! Quanto agognava quell’aria pulita, quel verde tutto intorno, quei campi di ulivo, quel cielo limpido e spiare le pecore aggrappato ai recinti, e tentare di mungere le mucche, e contemplare il fuoco sotto le stelle e farsi baciare dal sole passeggiando sulle strade sterrate.

Avrebbe voluto fuggire lì e portarci tutti: Lilia, Serapia, Fabio, Dario, Costanza, Simone, Priscilla… tutti insieme in quella grande, magnifica villa, a godersi la primavera alla faccia della peste. Al di fuori il mondo si sarebbe aggiustato come avrebbe potuto, ma loro avrebbero lasciato entrare solo la primavera.

Invece no. Era solo, in quella notte fredda e angosciosa, a chiedersi come sarebbe andata a finire. Quante persone si sarebbe portata via, questa volta? E quanto sarebbe durata quella situazione assurda, in cui anche l’amico più caro diventava una minaccia e un pericolo mortale? Quanto tempo avrebbe dovuto passare solo in quella baracca con la cagnolina che anche lei, sembrava stanca e malinconica?

Che ne sarebbe stato, di tutti loro? Quell’epidemia era destinata ad essere archiviata in qualche settimana come un brutto ricordo, o avrebbe sconvolto le loro vite e la società romana come la peste antonina, lasciando – come quella terribile epidemia – la città deserta, cadaveri per le strade, orrore nella memoria dei sopravvissuti?

Da lontano arrivavano notizie di scenari devastanti, i morti si contavano ormai a migliaia e più di quarantamila erano i contagiati in tutta la penisola. Anche in città la situazione si andava aggravando di giorno in giorno, di ora in ora. Eppure Valentino voleva sperare – cercava in ogni modo di credere – che quei provvedimenti drastici che erano stati presi avrebbero frenato per tempo la catastrofe.

Non c’era cura per quel morbo: poteva ucciderti in poche ore o entrare e uscire dal tuo corpo senza che nemmeno te ne accorgessi. Bisognava solo impedire che dilagasse. Valentino, in coscienza sua, sapeva che aveva fatto la sua parte, con quella decisione inaudita. Assurda, secondo tanti. E non era stata affatto facile: gli mancava anche a lui, potersi nutrire del corpo di Cristo, gli mancava poter condividere la preghiera con gli altri: “Dove ci sono due persone riunite nel mio nome io ci sono” aveva detto Cristo.

E dove era, Dio, adesso che nemmeno due persone potevano riunirsi? Che tutti erano costretti a stare soli, soli nelle proprie case, occupati solo a difendersi da un nemico invisibile, che poteva annidarsi nel tuo vicino, in tuo fratello, in tua moglie, in tuo figlio?

Solo Costanza e la sua squadra giravano ormai per la città, portando cibo e aiuti casa per casa. E in fondo sapere questo consolava almeno in parte Valentino, ché se il pane del cielo, almeno per un po’ lo aveva tolto a tutti i fedeli, il pane quello che nutre il corpo, quello non lo faceva mancare ai ternani.

Il gruppo di fedelissimi del Vescovo non aveva pensato nemmeno per un momento di chiudersi in casa, e si era organizzato al meglio per fronteggiare quell’emergenza: Simone, Luca e Fabrizio smistavano i beni da distribuire, Costanza, Berenice e Rufo andavano ogni giorno a portare gli aiuti casa per casa, mentre Priscilla si prendeva cura degli ammalati, mettendo a rischio la sua stessa vita, e Dario faceva da collegamento correndo di qua e di là tutto il giorno.

Il lavoro diventava tuttavia sempre più difficile anche per chi andava in giro ad aiutare: in pochi giorni si era passati dall’ostinazione a voler continuare la propria vita come sempre al panico, e quegli stessi che appena qualche giorno prima brindavano alla peste dal Britannico, adesso se ne stavano affacciati alla finestra a lanciare insulti e sassi a quelli che andavano in giro. Costanza stessa aveva dovuto schivare un paio di colpi, nonostante senza di lei ben pochi in quei giorni avrebbero potuto mangiare e bere.

Valentino ci aveva provato, a dare una mano, ma si era fatto convincere presto a restarsene a casa. Ormai era diventato uno dei bersagli principali: più le ordinanze diventavano restrittive e più cresceva il malumore, soprattutto tra i pagani, sempre più convinti che l’epidemia fosse solo un pretesto per colpirli e reprimere gli antichi culti.

Proximo e Lucio erano stati costretti a mandare intere squadre di soldati a far rispettare il coprifuoco con le buone o con le cattive e il rancore verso i duoviri – soprattutto verso quello cristiano – cresceva di giorno in giorno, e con esso quello contro il Vescovo, considerato complice e artefice di quella tragedia collettiva.

Il paradosso è che adesso Valentino si ritrovava ad essere odiato tanto dai cristiani quanto dai pagani: dai cristiani perché aveva tolto loro la messa, e dai pagani perché convinti che avesse tramato con Lucio per diffondere la peste. Una duplice accusa che a rigor di logica non stava in piedi: se Valentino aveva diffuso la peste per far sopprimere il culto pagano, per quale motivo aveva sospeso anche quello cristiano?

Il problema è che le psicosi collettive raramente hanno interesse per la logica. E così Valentino era riuscito a mettersi contro tanto i sostenitori di Lucio quanto i suoi nemici e adesso doveva solo restarsene nascosto in casa, aspettando che l’inferno – là fuori – finisse.

In tutto ciò non poteva non chiedersi dove fosse e come stesse Silvia.

Era viva, e al sicuro da qualche parte, magari in qualche villa di campagna? O addirittura lontano, dove la peste non era arrivata? O forse era ammalata e lottava tra la vita e la morte, cercando disperatamente l’aria che fuggiva dai polmoni. Oppure era già morta, e chissà da quanto tempo. E questi pensieri, al nostro eroe, proprio non gli davano pace.

Chissà…

Come si dice – fece tra sé infilandosi sotto le coperte – chi vivà vedrà”.

La cagnolina era rannicchiata sul letto, accanto a lui. Le fece una carezza sul pelo folto e lucido e le diede una grattatina sulla pancia, ma lei stavolta nemmeno aprì gli occhi. Si limitò a sbuffare e a stirare le zampe.

Buonanotte, piccola”.

Soffiò sulla fiamma del lume. E cercò di dormire.

Come chiuse gli occhi, o forse un attimo prima, vide nell’oscurità il volto di Silvia.
Era bella, bella come sempre; i capelli corvini le scendevano lunghi sulle spalle bianchissime fino al seno. Era anche lei a letto e quel volto austero lo guardava sorridendo.

Valentino non sapeva cosa dire; così non disse niente. Ma pensò tutto.

Sto bene” disse lei. “E’ tutto a posto, stai tranquillo”.

La sua voce era piena di dolcezza, come i suoi occhi che lo guardavano come una donna innamorata guarda un uomo innamorato.

Dove sei?” mormorò lui.

Sono lontano, molto lontano: in una città del profondo nord. Ma sto bene, amore mio. E’ tutto a posto. Mi manchi, mi manchi tantissimo. Ti amo tanto, principe mio”.

Valentino si sentiva invaso da una profonda dolcezza e da una immensa nostalgia.

Prenditi cura di te, farfallo caro. Devo sapere che tu stai bene, per stare bene anche io. Ci vediamo presto”.

Presto?
Quando?

Non importa quando, perché comunque non sarà mai troppo tardi per ritrovarci”.

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