IL VECCHIO PINOCCHIO


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per Antonella A.
 

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Nel mezzo del cammin di nostra vita, Pinocchio se ne passeggiava bel bello per le vie della città.

 
Beh, insomma. Proprio bello, forse, no. D’altra parte, anche se in fondo era ancora giovane, gli anni cominciavano a farsi sentire sul suo volto e lui, che era stato un fanciullo tutto pepe, di sale in zucca adesso ne aveva fin troppo.
 
Difficile poi dire che passeggiasse, perché Pinocchio non passeggiava mai. Non aveva mica tempo da perdere, lui. Era un uomo d’affari.
 
Era un magistrato stimato e rinomato. E, soprattutto, temuto. Perché inflessibile e incorruttibile.
 
Era un padre severo e un ex marito generoso, anche se un po’ rancoroso. D’altra parte Lei aveva fatto bene a lasciarlo, era pronto a riconoscerlo, Pinocchio. L’aveva trascurata tanto. E forse era giusto così: non aveva tempo per lei.
Le coccole. Le coccole! Ma che un uomo serio e impegnato come Pinocchio si metteva a fare le coccole?
Ma sì, aveva fatto bene a lasciarlo. Magari, ecco, poteva evitare di farsi vedere in giro con quel giornalista australiano, tutto qui.
 
Comunque erano rimasti in ottimi rapporti, più o meno. Si volevano bene. La cosa più importante, nella vita, è volersi bene e avere la stima dei propri figli. E i suoi figli lo amavano e lo stimavano, Pinocchio ne era certo. Certo non si mettevano a fare tante smancerie, ma non è con gli abbracci e con i baci che si dimostra l’amore, Pinocchio lo ripeteva sempre. Si dimostra con l’educazione, la disciplina, sì, anche la disciplina. Perché un figlio cresciuto nella bambagia da grande sarà uno squalo o uno sfigato. La vita è fatta anche di sacrifici, e Pinocchio lo sapeva bene.
 
Se ne andava in fretta e furia per la strada, il vecchio Pinocchio, indaffarato tra i suoi mille affari: le cause in tribunale, i saggi da scrivere, le buone letture, l’amministrazione dei beni di famiglia e – qua è là, quando aveva tempo – qualche piccola scultura in legno, che si divertiva a fare per rilassarsi, pur sapendo che non avrebbe mai avuto il talento di suo padre.
 
Nel mezzo del cammin di nostra vita Pinocchio se ne andava in fretta e furia per la strada. Che la vita è breve e non c’è tempo da perdere. Lo sapeva bene lui, che aveva rinunciato all’immortalità del burattino per la precarietà dell’esistenza umana.
Per questo odiava i fannulloni e i sognatori. Perché il poco tempo che abbiamo va usato bene, per costruire una vita che valga la pena di essere vissuta, perché bisogna dargli un senso, a questa esistenza. Bisogna prenderla in mano e portarla da qualche parte. Perché noialtri non siamo mica burattini, che devono solo lasciarsi andare e qualcun altro pensa a tutto: a dove, a cosa, a perché. E’ una bella responsabilità, essere padroni della propria vita, Pinocchio lo sapeva bene. E questa responsabilità ce l’aveva tutta sulle spalle, e caspita quanto pesava. Quanto era faticoso, portarla in giro per il mondo.
 
Non l’aveva rimpianta neppure per un secondo, il vecchio Pinocchio, quella scelta di faticosa e mortale esistenza. Ma ogni tanto sentiva un grande vuoto dentro, come un attimo di nostalgia indefinita, e aveva una gran voglia di piangere. Così, senza un motivo. Ma non piangeva. Perché non c’è gusto a piangere senza una spalla su cui versare le lacrime. E poi gli uomini non piangono, piangono i bambini.
 
Nel mezzo del cammin di nostra vita, Pinocchio passeggiava per la strada, quando all’improvviso scorse una figura familiare. Si fermò un secondo. Si stropicciò gli occhi. Scosse la testa e riprese a camminare. Ma si sentì chiamare per nome.
 
E Pinocchio si voltò.
 
Sentò un po’ a riconoscere quel volto antico ma sì, era proprio lei: la fata dai capelli turchini. Un po’ invecchiata, sì. Con qualche ruga e i capelli di un altro colore. Ma era lei. Era proprio lei.
 
“Pinocchio, come stai? Quanto tempo è passato! Ho letto il libro di Collodi e, che dire, sono senza parole! Mai immaginavo che ti sarebbe mancata quella vecchia ragazza che ti obbligava a ripassare i verbi della grammatica e lavorare, e prendere le medicine amare e a comportarti da bravo ragazzo! Così, quando ho letto il libro, ti ho cercato ed eccoti qua. Sai, io sono stata via tanto tempo. Mi fa piacere che tu faccia il magistrato, chissà quanto bene, che fai! Come sta Geppetto? Salutamelo tanto! Continua a lavorare, mi fa piacere che sei diventato un uomo  importante!”.
 
Erano più di vent’anni che non la vedeva, la sua fatina. Era ancora un burattino, l’ultima volta che si erano incontrati.
 
Lasciò cadere la borsa, e tutti i documenti finirono sparsi per terra. Una lacrima rigò il volto dell’impassibile magistrato. “Fatina” disse solo. Si mise a correre, come correva un tempo. Verso di lei.
 
La abbracciò forte e scoppiò a piangere. E pianse tutte le lacrime che non aveva pianto negli ultimi vent’anni. Le pianse tutte, fino all’ultima goccia. E la stringeva forte e non la mollava.
 
“Fatina mia, non sai quanto mi sei mancata! Non sai quanto ho sofferto la tua assenza! Fatina mia, quante cose ho da raccontarti, quante ne sono successe, in tutti questi anni! Fatina mia, perché mi hai abbandonato? Perché non ti sei più fatta vedere? Ma lo sai, ce le ho sempre stampate nella mente e nel cuore le ultime parole che mi hai detto: “Metti giudizio per l’avvenire, e sarai felice”. Non le ho mai dimenticate! Ma mi sei mancata tanto, fatina mia! Tanto! Non lo so come ho fatto senza di te, ma adesso che ti ho ritrovato non ti lascio più!”.
 
Ma lei si ritrasse. Lo guardò con aria preoccupata, quasi infastidita da tutta quella confidenza: “Non avrei mai pensato di aver lasciato un segno cosi profondo in te” fece. “Ma questo è veramente troppo. Sicuramente apprezzo la tua sensibilità e il tuo ricordo tenero e affettuoso, ma mi metti addosso un fardello di responsabilità difficile da portare”.
 
Pinocchio restò di sasso. Le lacrime tornarono indietro e lui fu un tutt’uno con le sue lacrime asciugate: divenne di sale.
 
“Io non sono una fata, Pinocchio. Sono solo una donna forse un po’ troppo comunicativa. Me lo dice sempre, mio marito. Quando ci siamo conosciuti ero una ragazza con molti sogni e molta incoscienza. Non so dunque cosa potessi trasmettere ad un burattino che, a quanto ho letto, si beveva ogni mia parola.
 
Forse questa mia fame ed entusiasmo di vivere, di andare oltre, bramosa di conoscenza e nuove esperienze. Ma io credo che tu mi abbia fin troppo idealizzato. Sono lontanissima dall’essere una donna perfetta o speciale, ora come allora. Mi spiace che non ci siamo frequentati più a lungo perché avresti visto i lati brutti del mio carattere, una volta finito l’incantesimo”.
 
Pinocchio la ascoltava in silenzio. Rosso in volto.
 
“Torna tra noi, caro Pinocchio! I miti sono da tutt’altra parte! Le fate non esistono! Sei giovane e hai ancora molto cammino davanti a te. Io invece qualche conclusione devo già tirarla. Mi pare che tu stia lavorando bene: continua cosi, ma metti sempre te stesso al centro dell’universo. Avrei voluto dirtelo allora, ma allora andavo di fretta! Adesso ti saluto”.
 
Pinocchio raccolse le sue carte frettolosamente, imbarazzatissimo. Ma come se ne era uscito con quella scenetta patetica, da ragazzino? Peggio, da burattino!
 
Come aveva potuto abbracciare e stringere così forte un’estranea, e piangere in quel modo bagnandole i capelli. Come se fosse la mamma, la fidanzata, la sua migliore amica?
 
Osservava quella donna, ormai quasi sui cinquanta. Adesso stentava a riconoscere in quei tratti la sua vecchia fatina. “E se mi fossi sbagliato?” si diceva. “E se fosse uno scherzo? Possibile che sia davvero lei?”.
 
Ma lei sorrise e Pinocchio la riconobbe di nuovo. Ma non sorrise, lui. Continuava a vergognarsi come un cane.
 
Come aveva potuto abbandonarsi all’improvviso a quello slancio affettivo? Era la sua fatina, sì, ma in un’altra vita. Una vita lontana. Una vita da burattino. Non c’era, quella donna, quando si era diplomato, e quando era andato all’università. Non c’era quando si era laureato, quando era entrato per la prima volta in un tribunale da giudice (e non da imputato!) e quando aveva emesso la sua prima sentenza. Non era con lei che si era confidato quando si era innamorato la prima volta, non era presente il giorno del suo matrimonio; non era con lui quando erano nati i suoi figli, non c’era quando la moglie lo aveva lasciato.
Non sapeva quanto aveva amato “I promessi sposi” e quante volte aveva comprato “Il lampione” e “Scaramuccia”. Non c’era, la fatina, quando era partito per la guerra e non c’era nemmeno quando era tornato dal fronte, segnato nel fisico e nello spirito. Non c’era quando aveva guadagnato i suoi primi soldi e non c’era alla cerimonia di ingresso nella massoneria.
 
Che ne sapeva, la Fata turchina, di quello che Pinocchio aveva fatto in quei vent’anni e passa, che ne sapeva del ragazzo che era stato, dell’uomo che era diventato?
Lei aveva conosciuto solo un burattino di legno. Solo uno stupido burattino di legno.
 
Si vergognava come un pazzo, il giudice Pinocchio, di fronte a quella signora che lo guardava a disagio. Anche perché – adesso questo pensiero lo tormentava – lei era la sua fatina, la sua unica fatina. Ma lei, chissà quanti bambini aveva educato, amato, curato con affetto. Lei era la fatina della sua vita, ma per la fatina lui era solo un burattino tra tanti.
 
Doveva rompere il ghiaccio, superare quell’imbarazzo terribile. Ci voleva una bella battuta spiritosa. Di quelle che lo avevano reso rinomato tra gli amici. Adesso ne faccio una, pensò: “Fatina, certo che eri bella, sai? Mi piacevi proprio tanto tanto, e infatti, ti ricordi? Quando stavamo insieme mi si allungava sempre il naso! Ah!”.
 
No, non è proprio il caso, proprio no, si disse. Queste son battute da quindicenne, caschiamo dalla padella alla brace.
 
Aveva ormai raccolto tutte le carte. Non c’era rimasta più nemmeno una foglia secca, per terra, da raccogliere o da far finta di guardare. Doveva per forza alzare lo sguardo, e affrontare gli occhi della fatina. O quello che era diventata.
 
Si alzò in piedi e la guardò fissa in quegli occhi turchini. Sorrise, finalmente sicuro di sé. Si avvicinò e le strinse la mano, energicamente. “Mi ha fatto piacere, fatina, averti rivisto dopo tutti questi anni, davvero! Addio, fatina! A presto!”.
 
E Pinocchio, nel mezzo del cammin di nostra vita, si allontanò senza guardarsi indietro.

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4 commenti su “IL VECCHIO PINOCCHIO

  1. anonimo il said:

    Complimenti per il racconto, è davvero bello….mentre lo leggevo avevo come l’impressione di vivere nelle scene….è reale come come racconto, riesce ad esprimere tutte le impressioni di Pinocchio, la gioia di rivedere la fatina, il disagio di scoprire che non era più quella di un tempo…è pieno di emozioni…ancora complimenti…

  2. anonimo il said:

    Ciao ,
    sono a fare i compiti d’ italiano con la mia testa di legno.
    Deve svolgere un tema sul primo giorno di scuola alle medie … dice che non le viene in mente niente.
    Hai qualche consiglio da fata turchina che non rinnega da darmi?
    Lucia.

  3. ARNALDOCASALI il said:

    PUNTATA 287

    [..] Diretta su Radio TNA martedì 19 ottobre 2010 (venerdì 23) ADDIO FATINA, A PRESTO – parole in corsa Musica Fiorenzo Carpi: , 1973 Nino Manfredi: , 1973 scritta e condotta da Arnaldo Casali diretta e condotta da Francesco France [..]

  4. anonimo il said:

    aspetto con ansia la terza parte della storia…..dai su'…..non puo' finire così!!!   dejna

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