BOY SCOUT

Lo zaino volò fuori dalla finestra.


Un istante dopo una sonora pedata si riversava sul mio culo tredicenne. Poldo mi spinse fuori della stanza delle Pantere mentre il capo squadriglia mi regalava uno sguardo a metà tra il severo e l’impotente.

Uscito dal prefabbricato che ospitava il reparto Mata O’Hara, nel giardino nella parrocchia di San Gabriele, raccolsi il mio zaino e mi allontanai verso la fermata dell’autobus.

Era il tramonto di un giovedì di ottobre.

BOY SCOUT


E’ stato Alessandro C. a farmi entrare nel magico mondo degli scout. Il suo vero nome era Alessandro Cavalieri, ma siccome in classe, di bambini con quel nome ce ne erano tre, e la maestra Maria ci teneva che almeno alle elementari i ragazzi si chiamassero col nome di battesimo, furono introdotte le sigle: Alessandro C., Alessandro V. e Alessandro G. In realtà, quest’ultimo, l’abbiamo sempre chiamato Giordano, forse perché aveva un cognome che suonava come un nome.  

Ma torniamo a noi: Alessandro C. era il mio migliore amico. Probabilmente perché era un tipo paffutello e un po’ imbranato. Tutti i miei migliori amici sono sempre stati paffutelli e imbranati, forse perché si cerca sempre solidarietà nei propri simili. In compenso era uno che l’avventura ce l’aveva nel sangue: suo padre era pilota all’Alitalia e a dieci anni Alessandro C. aveva già visitato le capitali di mezzo mondo. E poi sapeva fare tutti, e dico tutti i nodi possibili e immaginabili. A dieci anni era già boy scout da una vita. E mi sono sempre domandato a che diavolo di età sarà mai entrato nei Lupetti per essere, a dieci anni, boy scout da una vita.

Ero il secondo compagno di classe, comunque, che Alessandro C. reclutava al Terni 1. Prima di me, infatti, era toccato già ad Eleonora.

 

Bisognerebbe aprire un capitolo a parte, su Eleonora.

Eleonora

 

Diciamo che per me è stata un po’ quello che Jenny era per Forrest Gump. 

In pratica è stata la donna più importante della mia vita per vent’anni: più o meno dai sette ai ventisette. E anche oggi, anche se ci vediamo poco, resta una persona molto, molto speciale.

Beh, non è strano, devo dire: c’era sempre, Eleonora, nei momenti più importanti della mia vita: quando sono nato lei era al mondo da due giorni; quando a dieci anni ho scritto il mio primo racconto, è con lei  – che a quei tempi era mia compagna di classe alle elementari – che ne ho parlato; e quando a undici ho deciso di fare l’attore interpretando lo Spaventapasseri nel Mago di Oz, lei era Dorothy.

Quando a tredici anni ho fondato la mia prima fanzine, lei è stata la mia prima lettrice, quando a quattordici ho deciso di imparare a battere a macchina, l’ho fatto perché lei aveva deciso di frequentare i corsi di mia madre, che insegnava dattilografia da una vita e che non era mai riuscita a convincermi ad imparare la tastiera cieca.

E’ stata Eleonora – dopo la mia uscita dagli scout – a convincermi ad entrare nel gruppo parrocchiale di San Salvatore, che avrebbe formato tutta la mia adolescenza, la mia giovinezza, la mia coscienza critica.

Con Eleonora ho passato la gran parte della festa di diciotto anni.  Con lei ho vissuto gli anni dell’università, a Roma. Ed fu lei a presentarmi Valentina, la mia prima fidanzata.

E’ stata Eleonora, anni più tardi, a farmi entrare nella compagnia teatrale in cui avrei finalmente  appagato quelle ambizioni teatrali maturate sin dai tempi del Mago di Oz.

E’ stata Eleonora a farmi conoscere Jack Frusciante, Il piccolo principe, Bianca, L’obbedienza non è più una virtù e Canzoni a manovella e mi ha iniziato anche all’impegno politico, quando – con i suoi amici fricchettoni – mi fece capire che era un po’ qualunquista continuare ad  affermare che tra Pino Rauti e Fausto Bertinotti, in fondo, non c’era poi tanta differenza.

Ed è poi con lei che sarei andato, pacifista e noglobal, a Genova, nel luglio del 2001, a rivendicare un mondo un po’ più giusto di fronte ai grandi della terra.

E’ stata anche un sacco di altre cose, Eleonora, per me, in vent’anni, e non è che adesso te le posso raccontare tutte. Ma ti basti sapere che era la mia Jenny: proprio come Jenny lei viaggiava, conosceva, amava, gioiva, soffriva, viveva, imparava, faceva esperienze di ogni tipo. E io la aspettavo sempre qui, chiuso nel mio mondo, vivendo solo di sogni. 


La vita, per certi versi, la guardavo attraverso gli occhi di Eleonora. Ogni tanto lei tornava da me: bastava che la vedessi per un giorno perché per me il purgatorio si trasformasse subito in paradiso. Sia che ci fossero lacrime da asciugare, sia che ci fossero confidenze da raccogliere, sia che ci fosse semplicemente una pranzetto improvvisato a casa sua – un ovetto in padella e un’insalata –  o una chiacchierata per strada.

Di solito, però, ci metteva meno di un giorno per sparire di nuovo nel nulla e lasciarmi solo. In attesa di un altro ritorno.

 

Ottobre 1985

 

La prima cosa che mi colpì, quando entrai nella stanza della casa parrocchiale dove si riuniva il branco Fiore Rosso, fu il ritratto di Baden-Powell stampato sul calendario Agesci 1986 che avremmo poi venduto per settimane all’uscita della chiesa.


In quel ritratto del baffuto, con le braccia conserte, la camicia marrone piena di distintivi, il fazzolettone grigio, lo sguardo fiero, il cappello da rover leggermente di traverso, c’era tutta solennità di quell’esclusivo clan (è proprio il caso di dire) di ragazzi speciali che erano seduti a terra, in circolo, a raccontarsi le avventure del Libro della Giungla, e al quale avevo avuto, oggi, la ventura di essere stato ammesso.

 

Varcai la porta di quella stanza con reverenziale timore. Mi ero preparato per settimane a quel momento: avevo persino deciso, per l’occasione, di inaugurare un nuovo serial per GN, la mia rete televisiva di fantasia,  chiamato appunto Boy Scout e del quale avevo anche composto la sigla.

 

Sì, sono sempre stato un megalomane; a me non bastava avere un amico di fantasia, volevo un intero pubblico.

 

Devo dire che le camicette azzurre mi spiazzarono un po’. I boy scout, io, me li ero sempre immaginati con vesti verde-militare. In seguito scoprii che quelli vestiti di verde erano gli altri scout. Quelli della Cngei, quelli atei.

Dico la verità: ho sempre guardato con una certa diffidenza – e anche una punta di orrore – a questi scout laici, un po’ come guardavo i protestanti. Erano quelli che stavano dalla parte sbagliata, quelli destinati alle fiamme dell’inferno, anche se erano buoni, anche se erano brave persone.


Cazzo, sarei stato l’orgoglio di Ratzinger!

 

D’altra parte non era ancora nata la FIS, e la Cngei a Terni non c’era, e la conseguenza fu che questi rivali, di fatto, io non li ho mai visti, e l’unico ricordo che mi resta di loro è una foto che avevo ritagliato da una rivista, in quei giorni preparatori al grande ingresso nei locali della parrocchia di San Gabriele al Terni 1, il più antico, il più prestigioso dei gruppi scout ternani, che affondava le sue radici addirittura negli anni Venti. Nientemeno.

 

La chiesa

 

Sento parlare dei boy scout come di un gruppo di bigotti. Se lo pensate non avete mai visto da vicino la Chiesa cattolica.

Ho fatto parte dell’Agesci per tre anni, ma devo dire in tutta franchezza che niente dell’insegnamento di Santa Madre Chiesa, nel bene e nel male, l’ho recepito in quegli anni. Sì, si stava in parrocchia, c’era un prete, si andava a messa la domenica. Ma finiva lì. Non ho mai sentito parlare del Vangelo, finché ero negli scout. Il Vangelo, nell’Agesci, è il libro della Giungla. Le reliquie che si venerano, sono quelle appartenute a Baden-Powell, come il fermaglio con cui si teneva il fazzolettone da capi che si diceva provenisse nientemeno che dall’ultimo fuoco acceso dal fondatore.

 

Mai fatta una veglia di preghiera agli scout, mai una riflessione approfondita sulle scritture, mai fatto volontariato serio, tipo negli ospedali o negli ospizi. I valori che ci inculcavano non erano quelli della solidarietà, dell’amore, della tolleranza, ma quelli militari della forza, dell’ordine, dell’efficienza. E poi l’amore per la natura, certo. Ma certo, il buonismo o anche il moralismo non si rischiavano di sicuro.

 

Sarà pure che la nostra è una città comunista e anticlericale, ma al Terni 1 si pregava poco e si bestemmiava molto. E non è un caso se pochissimi dei miei compagni di allora è ancora cattolico. E la gran parte di essi, forse, non lo era davvero nemmeno allora.

E che alle uscite di reparto guide ed esploratori passassero le notti insieme era quasi una cosa normale. Per carità, quando si raccontavano queste cose è chiaro che i ragazzini bigotti e verginelli come me ci restavano con la bocca aperta e gli occhi sgranati, ma i capi reparto non ci hanno mai badato.

 

Gli eroi

 

Il primo mito che imparai a conoscere, prima ancora di Baden-Powell, fu Carlo Catalano.

Carlo Catalano era un rover di venticinque anni che durante una spedizione in montagna aveva avuto un tragico incidente. Era rimasto per non so quante ore a testa in giù, e da allora era paralizzato su una sedia a rotelle, sordo e muto.

L’incidente era accaduto appena due anni prima il mio arrivo nei boyscout, ma era circondato da un’aura così leggendaria che sembrava appartenere al patrimonio di tradizioni alla Storia stessa dello scoutismo.

Ricordo di aver sentito una volta uno dei capi, che avrà avuto una quarantina d’anni, forse anche di più, raccontare tra le lacrime di aver ricevuto la promessa dalle mani di Carlo Catalano. A contribuire a questa mitologia c’è il fatto che io, in realtà, Carlo Catalano non l’avevo mai visto, e personalmente l’ho conosciuto solo pochi mesi fa, quando sono andato a casa sua per scrivere un articolo su un libro di fiabe che ha pubblicato. Oggi Carlo è impegnatissimo sul fronte sociale e civile e anche politico ed diventato una presenza ormai abituale nella mia vita, ma allora non sapevo nemmeno che faccia avesse e me lo immaginavo alto con i capelli e la barba rossa. Probabilmente perché era l’aspetto di Akela,e anche lui si chiamava Carlo.
Stefano Zavka, invece, fu mio compagno di reparto per un anno. Insieme condividemmo il leggendario campo internazionale di Monte Alago del 1988, quello del quale ancora oggi si canta l’inno, quello nel corso del quale proprio gli scout salvarono il bosco da un devastante incendio.

Lasciati i boy scout Stefano divenne un alpinista, poi una guida alpina. L’ho rincontrai sedici anni dopo, quando si unì alla spedizione K2 2004 organizzata dal governo per celebrare i cinquant’anni della conquista – tutta italiana – della seconda cima del mondo.

Ci incontrammo per un paio di interviste: prima e dopo l’impresa, finita con l’amaro in bocca: Stefano riuscì ad arrivare a 400 metri dalla vetta, ma si dovette fermare per non rischiare di perdere una mano.

Tre anni dopo, nell’estate del 2007, ci riprovò. Questa volta la vetta è riuscito a raggiungerla. Ma a casa non è più tornato.

 

La divisa

 

Il magazzino dell’Agesci era una piccola stanza in Piazza Duomo, in cui si poteva trovare qualsiasi tipo di elemento per la dotazione del bravo lupetto. Quel magazzino, oggi, non esiste più. Non so dove vadano a comprare, oggi, gli scout le loro cose. So che in quella stanza, oggi, c’è la sala stampa della Curia, e al posto della ragazza in camicia azzurra che vende cappelli, zaini, camicie, pantaloncini e coltellini zvizzeri, ci sono io, che scrivo articoli per il sito web o per il giornale diocesano.

 

Al magazzino comprai camicia, pantaloncini, e il supermegazaino destinato ad accompagnare le mie avventure estive per dieci anni.

Non ricordo chi ha detto che i boyscout sono “bambini vestiti da cretini guidati da cretini vestiti da  bambini” ma forse non aveva del tutto torto. La divisa ha un suo fascino, lo riconosco. Ma i pantaloncini, io quelli li ho sempre destati.

Li trovavo ridicoli, e non capivo perché non potessimo indossare dei semplicissimi blue jeans, che – peraltro – mi sembrano un capo d’abbigliamento molto più avventuroso. Hai visto mai i cowboy andare in giro con i pantaloncini di velluto?

Per il resto, devo dire  che la fascinazione c’era. Ricordo le ricerche sui giornali per vedere come erano fatte le divise dei boy scout stranieri. E i racconti di zio Bruno, che – anche lui – da piccolo era stato scout, a Santa Maria Regina.

La cosa più affascinante della divisa era il fatto che fosse piena di distintivi: quello nazionale, quello internazionale, quello regionale, quello del Consiglio degli Anziani. E poi i ricordi dei vari campi regionali, nazionali, internazionali.

Più andavi avanti e più avevi distintivi. Più eri bravo e più avevi distintivi. La promessa, la prima stella, la seconda stella, la specialità di infermiere, di fuochista, di collezionista, montanaro, botanico, osservatore, amico degli animali.

 

Io di distintivi ce ne ho sempre avuti pochi.

 

Sette punti neri

                                     

Per tutto il primo anno di branco, le coccinelle le vedevo solo alle uscite mensili. Nel rispetto della tradizione scoutistica, infatti, il Cerchio arcobaleno era rigidamente separato dal Branco Fiore Rosso.

Mia cugina Germana, era anche lei scout, a Roma. Solo che lei era una “lupetta”, non una coccinella. Questa cosa effettivamente, a me non mi tornava. Invece l’anno successivo anche da noi il Cerchio Arcobaleno si sciolse, le coccinelle abbandonarono quel ridicolo cappellino rosso con i sette punti neri e indossato il nostro verde da lupetto. Così il mio secondo – e ultimo – anno da lupetto lo avrei fatto con Eleonora e tutte le altre ragazze.

Ok, passiamo a questo benedetto branco.

La mia sestiglia era quella dei Neri – Neri Neri, Sempre Forti E Guerriglieri! – e strillalo più forte, cazzo!

Ecco, si vede proprio che non ero tagliato per fare il boyscout, perché a me sta cosa già mi stava sullo stomaco. Chissà, forse alla seconda stella non ci sono mai arrivato perché già a dieci anni credevo più nella forza delle idee che in quella della voce alta. Ma qui, lo riconosco, c’è un po’ di superbia. Comunque il mio capo sestiglia era Gianluca. Era un bambino dolcissimo, aveva la mia età, ma molta più anzianità, ed era diventato come un padre per me. Sono stato proprio contento quando Eleonora si è fidanzata con lui.

Alessio, invece, era proprio uno stronzo. Anche lui aveva la mia età ma era entrato nel branco un anno prima di me, era vicecapo sestiglia, e per questo si permetteva di darmi in continuazione degli ordini.

Lo riconosco, io sono sempre stato un anarchico, proprio di natura. Non ho mai sopportato ricevere ordini, soprattutto se questi ordini non vengono da persone autorevoli. Questo Alessio era proprio insopportabile, ma non che era un bulletto, era proprio irritante, proprio antipatico.

 

Una delle prime cose che mi colpì del fantastico mondo dei lupetti, a parte tutti i vari nomi d’arte dei capi – Akela Bagheera Kaa Balù – e i giochi dell’asilo riproposti fino in età preadolescenziale (però, lo ammetto, quelli li rimpiango ancora oggi), fu questo militarismo esasperato. Il fatto, cioè, che non contassero le tue qualità umane e la tua interiorità, ma l’anzianità in primo luogo, e in secondo luogo la capacità di saperti vendere, insomma la faccia tosta. Cioè, per acquisire i meriti non dovevi essere davvero coraggioso, capace ad accendere il fuoco  o a montare una tenda. Quello che ti serviva, in primo luogo, era faccia di chiedere quel titolo.

 

Io che avevo preso maledettamente sul serio gli impegni della Promessa, fui l’ultimo della mia ‘generazione’ a farla, perché non mi sentivo degno e aspettai che fossero i capi a propormela.

Una cosa che proprio non mi andava giù, poi,  era vedere come questi titoli cambiassero gli atteggiamenti che queste persone avevano con te.

Non dico solo di Alessio, e di quanto divenne ancor più bastardo quando prese la prima stella. Ma penso a Omar: era entrato insieme a me, anzi, forse qualche mese più tardi. Eravano diventati molto amici. Beh, come fece la promessa cominciò a guardarmi dall’alto in basso.

 

Azzurra

                     

Tutti erano innamorati di Azzurra. Aveva un anno più di me, e stava nel cerchio Arcobaleno. Era, ovviamente, molto amica di Eleonora. E lo è tutt’ora.

Siccome le coccinelle quel primo anno noi le vedevamo abbastanza poco, io Azzurra non l’avevo vista mai. Però tutti ne parlavano come una sorta di dea. Io la conobbi solo al primo campo. La osservai con un certo snobbismo. Da anticonformista radicale, avevo ovviamente già deciso che non mi sarei mai innamorato di lei. Per la serie, dovevo pure distinguermi dagli altri, no?

 

Ricordo la prima notte del primo campo, al Cai di Polino, tra ragazzini che piagnucolavano perché era la prima volta che stavano lontani dalla mamma, scorreggioni clamorosi, e cazzeggi vari, si tessevano per l’appunto gli elogi di Azzurra. Quelli che non erano innamorati di Eleonora (una buona percentuale) erano perdutamente innamorati di Azzurra, anche se nessuno aveva avuto il coraggio di dichiararsi.

 

Io finalmente l’avevo vista, questa famosa Azzurra. Era una ragazzina di dodici anni, mora, con i capelli lunghi, la carnagione scura. Gli occhi sottili, quasi orientali.

Niente di speciale, avevo detto.

 

Una settimana dopo ero perdutamente innamorato di lei.

 

Quell’anno, con la mia famiglia, andammo in vacanza in Valtellina con don Marcello. Don Marcello era Balù, cioè il parroco di San Gabriele, e di conseguenza capo supremo del Terni 1.

Lui l’estate se l’è sempre fatta in montagna. E quell’anno invitò alcune famiglie della parrocchia. Andammo la mia famiglia – al completo – quella di zia Elena, amica d’infanzia di mamma, la famiglia di Spidi – un altro lupetto, più piccolo ma più anziano di me, poi c’era una famiglia di Milano che frequentai solo in quell’occasione. E poi c’era la famiglia di Azzurra, padre, madre e tre sorelle.

Ora, per me che ero innamorato fresco-fresco, puoi immaginare cosa significasse quella vacanza in Valtellina.

Fu una bellissima estate. Una magnifica vacanza. Ricordo che le tre sorelle ci insegnavano alcuni “ban”, tipo Cicciuciaecicciuciae.

Ma l’unico momento che ricordo di aver condiviso con Azzurra – noi due, soli – fu una volta che dovevamo raggiungere il resto del gruppo al campo sportivo. Partimmo da soli, io e Azzurra. E arrivammo soli, io e Azzurra. Passarono più o meno dieci minuti. E non ci scambiammo una sola parola.

 

Però, che tumulto nel cuore, che tensione, quei dieci minuti.

 

In quel periodo scrissi gli ultimi racconti della saga Le avventure di  Alessandro C. L’avevo chiamata così perché mi ero stancato di scrivere racconti in cui il protagonista aveva il mio nome. Quindi scelsi il mio migliore amico come protagonista ufficiale del racconto, anche se poi è evidente che il personaggio principale restava la spalla, cioè io.

Comunque in questi racconti io fantasticavo raccontando avventure immaginarie che avevano come protagonisti i miei amici.

Finito il primo racconto, per così dire contemporaneo, feci ‘crescere’ i personaggi immaginando il loro futuro da adulti.

 

Nell’ultimo capitolo della saga, Alessandro C. e i ricordi delle elementari abbiamo tutti più o meno quarant’anni.

Ad Alessandro avevo fatto sposare Sandra, il mio primo amore. Ad Eleonora Riccardo Massi, un altro lupetto di cui era stata innamorata, e che oggi è uno dei capi del Terni 1. Io, invece, neanche a dirlo, sposavo Azzurra.

Quanta poca fantasia.

 

Comunque l’anno successivo, era ottobre, più o meno, Azzurra si tagliò i capelli. Mi bastò vederla una volta, con i capelli corti. Come novella Sansone, perse tutta la sua forza. D’un tratto quel grande amore che aveva riscaldato oltre sei mesi della mia giovane vita, svanì nel nulla.

 

Tra medioevo e far west

 

L’ultimo campo da lupetto fu quello a Pieve del Vescovo. Ormai ero un lupetto “adulto”. Avrei persino dormito in tenda, l’ultima sera (ammesso che sarei riuscito a montarla) per prepararmi al grande passaggio in Reparto.

Insomma ero tra gli ‘anziani’, non più tra le matricole sfigate; presi persino la prima stella. Gianluca era sempre il mio capo, ed era sempre fidanzato con Eleonora. Mauro Nannini alias ‘Bagheera’ – che oggi ho rincontrato nella cooperativa sociale dove lui lavora e dove io ho fatto il servizio civile – suonava la chitarra come fosse un tamburo. Era l’unico modo in cui sapeva suonarla, disse una volta. E io mi domandavo perché non si fosse comprato un tamburo, anziché una chitarra.

 

Quell’anno il campo fu organizzato in un castello abbandonato. Un vero castello, con tanto di saloni con camini, cantine-prigioni, stanze proibite e leggende di fantasmi. Il tema di quell’anno, invece, era il Far-West. Le canzoni ufficiali del campo erano “Luce rossa” e “Lazy Boy”. A me era stato assegnato il ruolo di pianista del saloon.

Il Far West mi ha sempre affascinato molto. E il medioevo anche. Ma non puoi immaginare quale magia potesse significare passeggiare disinvoltamente tra due epoche così magiche e suggestive.

 

C’era l’usanza, tra i capi, di fare degli “scherzi” ai ragazzini. Un giorno ci dissero  detto che siccome eravamo stati cattivi avremmo lasciato il campo a metà vacanza.

Lo stesso scherzo me lo avevano fatto quella stessa estate gli animatori del campo del gruppo parrocchiale di Santa Maria Regina, di conseguenza fui l’unico a non cascarci, e mentre tutti piangevano avviandosi verso l’uscita io ripetevo – come una Cassandra al contrario – che si trattava solo di uno scherzo. Eleonora piangeva a dirotto e mi diceva “ma quale scherzo, qui ci mandano tutti a casa”.

 

Quell’anno mi misi anche in testa di battere il record assoluto di Canto degli elefanti. Sì, hai presente la canzone degli elefanti, no? Chissà quante volte l’avrai cantata anche tu. Beh, arrivai a 2200, cantando ininterrottamente per due giorni, pasti e notti comprese…

 

Pantere! Coraggio! Lealtà!

 

L’ingresso al reparto fu un trauma. Mi sentii un po’ come il protagonista di Mery per sempre quando passa dal carcere minorile all’Ucciardone.

 

Forse è stato in quell’occasione che ho deciso che non avrei fatto il militare. Qui non c’era gente che aveva uno-due anni più di te, controllata dai grandi, c’erano dei bastardi sedicenni che si divertivano a schiavizzarti o tormentarti con giochini simpatici tipo il pattonello.

 

Alla prima riunione delle Pantere (squadra famigerata perché raccoglieva alcuni loschi figuri che l’anno precedente si erano resi responsabili dello scioglimento di una delle più gloriose squadriglie del reparto), i miei compari si presentarono: il capo squadriglia era Luò, il vicecapo Andrea poi c’era Poldo e infine “Il Boss”, come si presentò subito.

 

Poi subito mi fecero presente che era loro intenzione vincere quell’anno la Fiamma. E mi fecero capire abbastanza chiaramente che se le Pantere non fossero riuscite a recuperarla nemmeno quell’anno, la responsabilità sarebbe ricaduta su di me.

 

Poldo divenne subito il mio più caro amico, nella squadriglia. Aveva solo un anno più  di me, e fu la mia ‘guida’ in quel nuovo  mondo.

Il Boss, da parte sua, non aspettò a farmi conoscere il suo carattere: mi costringeva a ripetere in continuazione idrocarburi perché la mia R moscia lo divertiva moltissimo. A volte mi prendeva a bastonate i piedi gridando, “Balla”, alla maniera di Biff Tannen su “Ritorno al futuro III”.

 

Durante il campo estivo amava prendere in giro un ragazzo diabetico. Altri ameni passatempi del Boss erano sostituire zolette di zucchero con diavolina, finire le provviste in assenza del resto della squadriglia o riempirti di sale le patate fino a renderle immangiabili. Poi, ovviamente, c’era il Pattonello: si prendeva il culo del più piccolo della squadriglia e ci si trastullava con qualsiasi cosa ti venisse in mente: sassate, morsi, calci, simulazioni di atti sessuali con una scopa,  e via dicendo.

 

Gioca la tua parte

 

Quello che c’era di magico nelle uscite di reparto, era quell’atmosfera fiabesca che creava ogni volta. Una volta ci vestimmo tutti come cavalieri medievali e per l’occasione fu scritta quella canzone che faceva Storie di folletti, draghi e maghi blu, storie per chi non le ricorda più.

Ma il più leggendario resta il campo nazionale a Monte Alago.

C’erano gruppi scout di tutta Italia, una cosa immensa. Peraltro ci fu anche un incendio, e per una volta gli scout furono eroici davvero. Finimmo anche sui giornali, perché l’abbiamo spento noi, quell’incendio, e quando i pompieri arrivarono il grosso del lavoro era stato già fatto. Almeno questo è quello che dissero i capi.

Eleonora diede il suo primo bacio durante quel campo. E come piangeva,  il giorno dell’incendio. Io, invece, non so perché, ma non ho avuto paura. Forse era incoscienza più che coraggio, ma ricordo una grande eccitazione.

La cosa più bella di quel campo, comunque, per me furono le canzoni: Prova ad essere te stesso e scoprirai che cosa c’è di unico e di grande inimitabile sei te, almeno il 5% lo diceva anche B.P., e con un po’ di impegno tu lo potrai far salir…

In pratica tutte queste canzoni che noi avevamo imparato sin dal primo giorno, erano parte di un musical. Un musical che raccontava la storia di un coniglio, ma molto romantica, e che fu rappresentato in quella grande pianura una sera, l’unica in cui fummo tutti insieme.

Per il resto si stava in reparto; ogni sera una squadriglia faceva animazione. L’animazione significava sostanzialmente realizzare una mega-scenetta che collegasse quelle fatte dalle altre squadriglie.

Non so perché, ma una volta, il capo reparto, Mauro Austeri, incaricò me di animare la serata. Da solo, senza l’apporto della squadriglia. Lo sentii come un incarico di grande responsabilità e tutto sommato anche un attestazione di stima che un po’ mi ripagava, visto che Mauro era lo stesso che di fronte alle vessazioni continue che subivo, un giorno mi aveva preso da parte dicendomi: “Ricordati bene quello che ti dico. Scrivilo anche sul tuo diario. ‘Oggi il capo reparto mi ha detto che sono un masochista’. Un masochista”.

 

Il momento più intenso di quel campo, incendio a parte, fu quello dello scambio tra reparti. Ogni reparto andava per una sera al campo di un altro, scambiandosi tende, isolene e  tutte le attrezzature.

Fu una camminata pesantissima, e lo confesso, non ce la feci. Caddi a terra stremato. Arrivò l’infermeria mobile, e il resto del tragitto lo feci in jeep. Così arrivai al campo prima di tutti, e mi sistemai nella tenda.

 

Qui incontrai un angelo. Non è che voglio essere troppo retorico, e che non ricordo il nome di quella ragazza dolcissima. Ricordo solo il volto, e molto sfocato. Ma soprattutto la sua tenerezza, le sue carezze sul mio volto, le parole dolcissime mentre mi teneva abbracciato.

Niente di troppo romantico, non fraintendere. Te l’ho detto che sono sempre stato un bambinone sfigato. C’era molto senso materno nella dolcezza di quella ragazza senza nome, che aveva almeno due anni più di me.

 

Tu che nell’Agesci ci hai passato undici anni, lo saprai bene. Quando si fanno questo tipo di scambi di campo c’è sempre un rischio, e cioè che il numero dei componenti delle due squadriglie coinvolte nello scambio non sia lo stesso. L’inevitabile conseguenza è che la sera ci si ritrovi con uno o due tappeti di isolene in meno e che qualcuno, di conseguenza, sia costretto a dormire sulla nuda terra come san Francesco.

 

La cosa capitò sia nella mia squadriglia che in quella di mio fratello. E a questo punto bisogna dire che la squadriglia  di mio fratello (che era entrato quell’anno, direttamente in reparto, e che – a differenza di me – sarebbe rimasto negli scout fino alla Partenza) era molto molto diversa dalla mia. C’erano anche lì stronzetti e bonaccioni, ma diciamo che il caposquadriglia riusciva a tenere le redini del gruppo, e a limitare, per così dire, i danni. Quando si ritrovarono con un tappeto di isolene in meno il capo squadriglia si sacrificò dicendo che avrebbe dormito lui senza isolene.

 

Quando la mia squadriglia arrivò al campo io avevo già preso posizione nella tenda. Poi anche loro si sistemarono uno di loro rimase senza isolene. Non ricordo se era il Boss, Poldo o un altro ancora. So che il diretto interessato mi guardò e disse con tono molto serio: “Hai preso il mio isolene!”. Io subito mi alzai chiedendo scusa. Immediatamente tuonarono in coro le risate. “Non è vero – disse Luò – ti ha preso in giro”.

 

Il tipo si prese l’isolene e, ovviamente, a dormire senza fui io. Né il capo né il vice dissero una parola.

 

18 ottobre 1988

 

Durante il campo estivo a Monte Alago Poldo aveva cominciato a cambiare atteggiamento nei miei confronti.

La mia impressione è che tanto più si avvicinava la partenza del Boss, quanto più Poldo sembrava  quasi aspirare a prenderne il posto.

Finito il primo anno di reparto aveva cominciato a prendere le distanze da me, era diventato più freddo. Poi persino sprezzante.

Durante il campo estivo si era unito al Boss in tutti i momenti peggiori.

Poi, alla fine del campo, il Boss – insieme a Luò – era passato in clan.

Le cose per me, però, non migliorarono affatto, anzi, peggiorarono.

Il Boss si divertiva con me solo perché ero piccolo, timido e sfigato. Le sue vessazioni nei miei confronti erano tutte di carattere fisico, e per lui rappresentavano fondamentalmente un divertissment. Poldo invece, mi prese proprio in odio.

Col tempo anche lui promosse Pattonelli e altri giochetti simili. Una volta mi prese persino a sassate; il problema è che lui non lo faceva per diversi, ma con autentico disprezzo. E poi dico la verità, non era quello che feriva il mio amor proprio.

Ok, un pappamolla come me non era adatto alla vita da uomini duri dell’Agesci. Ma ormai ci ero abituato. Io, che ancora oggi  non riesco a tollerare nemmeno uno scontro verbale con qualcuno, sin dai Lupetti mi ero abituato a fare a botte. Non era un problema, né prenderle né difendermi.

E dico la verità, alla fine il Boss io non sono mai riuscito ad odiarlo. Ero troppo convinto della mia superiorità morale e intellettuale per odiarlo.

Di Poldo, invece, avevo ben diversa considerazione. Era stato il mio più caro amico in reparto, e d’improvviso mi  aveva rinnegato. Inoltre, più che fisica, la sua violenza nei miei confronti era psicologica.

Continuava a ripetermi che ero un buono a nulla, un peso per la squadriglia e per il reparto, totalmente inadatto alle esperienze che mi aspettavano. Mi descriveva il campo degli Alisei ’89 come una prova massacrante che non sarei mai riuscito a superare, mi ripeteva che c’erano tanti ragazzi che non potevano entrare negli Scout perché io continuavo ad occupare un posto preziosissimo.


Lo ripeto, non voglio fare il martire: io sono e sono sempre stato un anarchico, e il mio senso dell’ironia – a volte forse  persino involontario – riconosco che poteva indispettire. E poi sono sempre stato un pigro, un indolente. Lentissimo in tutto. Eppure non credo di essere stato un cattivo scout. E non sono nemmeno così convinto che non fossi tagliato per quella vita. Mi piace la natura, mi piacciono le sfide, mi piace lavorare. E, lo dico sottovoce, se una parte di me ha sempre odiato – da allora – gli scout, un’altra parte di me non fa che rimpiangere quell’esperienza.

 

A volte mi domando come sarebbe stata la mia vita se fossi rimasto negli scout. E, sinceramente, penso che non solo mi avrebbe regalato una giovinezza più piena e divertente, ma che forse oggi avrebbe fatto di me una persona migliore. Se fossi rimasto scout, chissà, forse sarei diventato un uomo.

 

Comunque a sentire Poldo io davvero ero la persona  peggiore del mondo. Niente di quello che facevo andava bene.

Ero terrorizzato ogni volta che si facevano le “verifiche” perché temevo il giudizio che lui – o altri – avrebbero dato di me al capo reparto.

 

Quel giovedì era una riunione come tante. Si lavorava in squadriglia. Ricordo poco di quel giorno. Solo che Andrea mi ordinò di andare a prendere una cosa nella casa parrocchiale. Io andai e tornai nel prefabbricato. Come feci il mio ingresso nella stanza delle Pantere Poldo prese ad insultarmi senza apparente motivo. Io dissi ad Andrea: “Ma che ho fatto?”, e lui mi guardò con aria infastidita. “Piantala”. “Ma piantala cosa?” replicai.

A quel punto Poldo mi cacciò letteralmente  – dico letteralmente – a calci in culo dalla stanza, senza che Andrea pronunciasse una sola parola.

 

Epilogo

 

Non mi sono più avvicinato, da quel giorno, alla parrocchia di San Gabriele.

Nessuno, apparentemente, si accorse della mia scomparsa. Nessuno mi chiese niente. Nessuno si fece vivo.

 

Mauro, dopo qualche settimana, mi mandò a dire da mio fratello e da Alessandro C. (divenuto compagno di classe anche alle medie) che se volevo lasciare il reparto dovevo telefonargli e spiegargli le motivazioni.

 

Ovviamente non telefonai.

 

Eleonora, da parte sua, non ha mai voluto sapere perché me ne ero andato dal reparto. Negli scout ci sarebbe rimasta ancora quasi dieci anni. Quello era il suo mondo, e non voleva  rischiare di vederselo infangare con il mio racconto.

Più di una volta in cui eravamo entrati in argomento, mi disse proprio così, che era troppo legata a quelle persone e che se le avessi raccontato perché me ne ero andato le sarebbe crollato quel mondo in cui aveva creduto tanto.

 

Tre anni dopo la mia uscita dagli scout siamo andati in vacanza insieme in Val d’Aosta, con le nostre famiglie.

A metà vacanza mio fratello lasciò Cogne per partire per un campo scout.

Eleonora gli consegnò una lettera. Era per Poldo.

Di fronte al mio sguardo meravigliato mi spiegò: “Sai, è il mio migliore amico”.


Gennaio 2006 (rivisto il 1 agosto 2007)

 

 

 

 

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