AMERICANO ROSSO

Alessandro D’Alatri è da diciotto anni il mio regista preferito. Di lui ho visto tutto: dai documentari ai videoclip da (tutti) gli spot pubblicitari a (quasi tutte) le regie teatrali. L’ho avuto 5 volte al festival Popoli e Religioni e tre volte a StraValentino.

Eppure, paradossalmente, mi mancava un film: il primo.

“Americano Rosso” lo conoscevo per sentito dire da 25 anni ma l’ho visto per la prima volta solo ieri sera.

Ambientato nel veneto degli anni ’30, racconta la storia di un playboy-agente matrimoniale (Fabrizio Bentivoglio) che deve trovare una moglie per un ricco italoamericano in vacanza (Burt Young) con finale a sorpresa, a dire il vero forse un po’ troppo frettoloso, ed è l’unico difetto di questa commedia godibilissima anche grazie a un cast che oltre a uno dei più grandi attori italiani e al cognato di Rocky Balboa annovera anche due giovanissime Sabrina Ferrilli e Valeria Milillo, un cattivissimo Eros Pagni, Riccardo Rossi (in veste di quasi-comparsa) e Massimo Ghini, che avrebbe fatto con D’Alatri anche i due film successivi e – molti anni dopo – “Quando la moglie è in vacanza” a teatro.

Oltre all’atmosfera anni ’30 condita da musiche come “Parlami d’amore mariù” di De Sica, una delle cose migliori del film – sì, lo so che sono fissato – è la presa diretta.

Fino alla fine degli anni ’80 in Italia si doppiava tutto, e persino gli attori stranieri che interpretavano personaggi stranieri erano doppiati in un perfetto italiano: basti pensare a “Troppo forte” di Carlo Verdone o “Il piccolo diavolo” di Roberto Benigni.

Da questo punto di vista il film di D’Alatri è un precursore di opere come “Non ti muovere” (con Penelope Cruz) o “La tigre e la neve” (Jean Reno) perché il divo italo-americano (che in realtà si chiama Gerald Tommaso DeLouise, il nome d’arte rende omaggio a Burt Lancaster e Neil Young) recita sempre in un italiano giustamente stentato.

Altro dato interessante, è che il film, tratto dal romanzo (postumo) di Gino Pugnetti, è stato scritto da Enzo Monteleone, autore – tra l’altro – di “Mediterraneo” e altri film di Salvatores, che tre anni dopo avrebbe debuttato con il geniale “La vera vita di Antonio H.”, auto-biografia di Alessandro Haber.

Quello che colpisce di più un fan come me, comunque, è che “Americano Rosso” non assomiglia a nessun altro film di Alessandro D’Alatri. Che con “Senza pelle” – quattro anni dopo – avrebbe cambiato completamente registro, scrivendo da solo un film drammatico e di stampo neorealista (considerato il suo capolavoro) passando poi all’indagine sulla figura storica di Gesù con “I giardini dell’Eden” (1998), e continuando a innovare e a rinnovarsi ad ogni film realizzando sempre dei prototipi rimasti unici nella sua filmografia e nel panorama cinematografico italiano: “Casomai” (2002), “La febbre” (forse l’unica eccezione, visto che riprende lo stile di “Casomai” cambiando tema), “Commediasexi” (2006) e “Sul mare” (2010).

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