2022

Anno felice e doloroso, terribile e meraviglioso.

E’ difficile valutare quest’annata. Annata che io, come tutti i numeri pari, ho accolto con simpatia, e col pregiudizio che doveva essere per forza un anno bellissimo. Come il 2020 e come il 2002, il 1992, il 1982. I dispari non mi piacciono, i pari sono rotondi, e quelli con il 2, poi, sono sempre i più importanti. E poi dopo il 2021, che era stato un anno un po’ così – né carne né pesce – bello, importante, intenso, ma anche sofferto e doloroso, speravo proprio che il 2022 potesse essere invece magniloquente e senza ombre intorno.

E invece.

Invece è stato un anno di sole e tempesta, di gioia incontenibile e di dolore immane: l’anno dell’ascesa e della caduta, l’anno del matrimonio e del funerale.

Mi sono sposato ed è morta mia madre. Questi due eventi – avvenuti a poco più di due mesi di distanza – hanno segnato più di ogni altra cosa questo anno così importante.

Il giorno più bello e quello più brutto per un uomo. Strettamente connessi tra loro.
Un matrimonio pieno di ombre: la pioggia inattesa che non ha rovinato la festa ma certo ci si è messa d’impegno; l’ombra della morte, perché proprio in quei giorni ho realizzato che a mia madre rimaneva poco da vivere e ho pregato perché riuscisse ad essere presente alle nozze. E c’è riuscita, sì, ma per poco. C’è riuscita in modalità drive-in, perché non è stata in grado nemmeno di scendere dall’automobile, durante tutta la giornata.
Il giorno del mio matrimonio è iniziato con i messaggi di mio padre, che mi comunicava la saturazione. Perché – sì – poteva morire anche quel giorno. E l’immagine più straziante di quella giornata di sole e di pioggia, di gioia e di sofferenza non è quella di mia madre chiusa dentro la macchina ma quella di mio padre – l’uomo più elegante del mondo, che porta giacca e cravatta anche dentro casa – mio padre che il giorno del matrimonio non indossava la cravatta, trasandato e sconvolto.

Eppure è stato un giorno bellissimo. Bellissimo perché c’erano mia madre e mio padre; bellissimo perché ho ritrovato tutta la mia famiglia, ma anche perché quel giorno – in qualche modo – io l’ho costruita, una famiglia.

Mi piace dire che il 3 settembre 2022 io non ho sposato Beata Golenska, ma un centinaio di persone: tutti quelli che sono venuti e che da quel momento io considero la mia famiglia.

Ci sono persone che aspettavo di vedere da dieci, quindici, vent’anni.

C’erano proprio tutti. Cugine che non vedevo da millenni con le loro famiglie, Veronica che ci ha presentato nel 2016 a Bruxelles, arrivata dal Kenya. Alessia che non vedevo da ben 12 anni. E che poi è tornata, dopo appena un mese (così abbiamo battuto prima il record di lontananza e poi quello di vicinanza). Eleonora, che da quarant’anni aspettava di farmi da testimone. I colleghi dell’Istituto Giovanni Paolo II Matrimonio e Famiglia, che in occasione del matrimonio si sono dimostrati una vera famiglia. E poi le persone che ci sono tutti i giorni, e che non sono mancate nemmeno in questo giorno così importante.

E’ stato meraviglioso costruire la BeaWedding Family.

Sul fronte opposto, la morte di mia madre – l’evento più tragico della vita di un uomo, che ho atteso con terrore per 47 anni – è stata la morte più bella e serena che si potesse desiderare.

Se il matrimonio è stato così imperfetto, la morte è stata perfetta. Nei tempi, nei modi. Tutto è stato sereno.

Per un singolare caso (peraltro legato a San Valentino) il giorno prima sono tornato a Terni, ho cenato con mamma e papà, l’ho aiutata a mettersi in poltrona, le ho misurato la saturazione, le ho augurato la buona notte.

“Sto bene, stai tranquillo” sono le ultime parole che mi ha detto.

Il giorno dopo la telefonata disperata di mio padre alle otto di mattina, il viaggio in macchina con Beata e Daniele, proprio come me lo avevo immaginato tante volte.

La famiglia riunita. E lei, così bella, senza alcun segno di morte sul volto.

Non posso dire di aver alcun ricordo brutto di mia madre. Ha sofferto, ma non così tanto da desiderare la morte; è morta all’improvviso, ma non così all’improvviso perché fosse una tragedia inaspettata. Il compromesso perfetto tra una lunga agonia e una tragedia improvvisa.

Il funerale è stato bellissimo. La Cattedrale piena. Tutti gli amici: i suoi e i miei, anche gente che non era venuta nemmeno al matrimonio, quel giorno è venuta. Si è fatta presente. Ed è qualcosa che non posso dimenticare.

La tempistica, dicevo, così perfetta: il giorno prima del festival, con il funerale un’ora prima dell’inaugurazione – per una singolare coincidenza – nello stesso luogo.

Il festival, che ha segnato più di ogni altra cosa la mia vita, ha segnato anche la morte di mamma, e mi ha salvato dal deserto e dalla solitudine. Me e la mia famiglia. Perché il giorno stesso del funerale siamo saliti su una giostra che ci ha tenuto alta l’adrenalina e regalato compagnia ed eccitazione per nove giorni, accompagnandoci gioiosamente in questo itinerario di dolore.

Anche le persone che nemmeno l’evento gioioso del matrimonio era riuscito a riavvicinare, anche quei rapporti che in quel momento così bello non ero riuscito a ricucire, anche quelle cicatrici mamma ha rimarginato.

L’avevo messa – come sempre – nei ringraziamenti sul libretto del festival. E ho fatto bene. Perché quest’anno lei il festival non l’ha visto né vissuto, ma l’ha sostenuto ancora di più.

Questi due eventi sono stati uniti dalla gioia mescolata al dolore, ma soprattutto dall’amore da cui mi sono sentito avvolto.

Entrambe le cerimonie sono state celebrate dal Vescovo. Un uomo che fino a un anno fa nemmeno conoscevo e che pure si è dimostrato un vero amico.

Un matrimonio doloroso e un funerale gioioso. Sicuramente consequenziali. Sarebbe facile retorica dire che mamma ha aspettato che fossi sposato per andarsene serena. Eppure so che è così. E nelle ultime settimane, non faceva che guardare e accarezzare la fede che ho al dito.

Sicuramente due tappe esistenziali fortissime, che hanno ineluttabilmente segnato il definitivo passaggio all’età adulta, l’addio al bambino che non voleva crescere.

E però, ripensando a tutta questa annata, è significativo anche il fatto che l’ultimo compleanno della sua vita mamma lo abbia festeggiato – per un’altra felicissima coincidenza – con Francesco Salvi. E cioè il più grande mito della mia adolescenza divenuto uno dei più grandi amici che ho, e per il quale anche lei aveva una passione e una simpatia enorme.

Ma il 2022 non è stato segnato solo dal (primo) funerale e dal (secondo) matrimonio. L’Alfa e L’Omega di quest’annata eccitante e dolorosa è stato senza dubbio San Valentino.

Il Valentine Fest e il Premio San Valentino – ideati e improvvisati nel 2022 – hanno rappresentato la mia più grande sfida come direttore dell’Istess e al tempo stesso il compimento di un percorso iniziato quindici anni fa, con il festival StraValentino e poi il romanzo Il segreto del Santo innamorato.

Un’esperienza pazzesca, anche perché – a differenza del Film Festival – totalmente sperimentale. Difficile dire quanto è stato importante. Il videoclip di Flower of Midnight di Marialuna Cipolla è stata la perfetta sintesi di tutto il progetto. La canzone Santo Valentino scritta da Marialuna da un mio testo, a sua volta traduzione di una ballata medievale polacca rintracciata da Beata, e poi prodotta da David Riondino e messa in immagini da Gabriella Compagnone, è stata l’apoteosi.

In mezzo c’è stato l’incontro con Daniele Mencarelli – il più grande incontro letterario che ho fatto dai tempi di Enrico Brizzi (e curiosamente entrambi sono miei coetanei). Il ritorno di Alessandro D’Alatri, la “riconciliazione” con lo storico Edoardo D’Angelo (con cui in verità non ho mai litigato, ma che in molti hanno cercato di mettermi contro), il dossier su Medioevo, e soprattutto la statua di Paolo Consorti (contestatissima – con gente che ha minacciato di scrivere al Vescovo, e poi il Vescovo che – quando l’ha vista – se ne è innamorato), il TgSuite, il numero speciale di “Adesso” distribuito a tutti e la pubblicazione (in proprio – visto che è stato rifiutato da tutti gli editori) di Valentino e la maledizione della Dea Vacante.

E quel sofferto logo, realizzato da Valentino Maltese nel 2019 per il libro Sulle tracce di Valentino, ispirato alla Rosa di San Valentino creata da Paola Boscaini a Bussolengo, a sua volta ispirata alla copertina del mio romanzo Valentino. Il segreto del Santo innamorato. Quel logo rimasto reietto e dimenticato per tre anni finalmente nel 2022 è diventato un logo, finendo ovunque: dalle felpe, le magliette e i braccialetti fino alla copertina di “Adesso” e di Valentino 2, dalla bellissima Medaglia che ho fatto coniare fino alla fedi di nozze che qualcuno ci ha già felicemente copiato.

Come “StraValentino”, il Valentine Fest voleva essere una provocazione, voleva dimostrare quanto si possa fare con la figura di San Valentino.

Purtroppo la grande eccitazione e soddisfazione dell’inverno, si è trasformata della grande delusione dell’autunno. Iniziata proprio alla vigilia della morte di mamma, e culminata prima di Natale, con la mia esclusione dal Comitato Scientifico costituito proprio per fare – a livello diocesano e cittadino – quello che io ho cercato di fare, da solo, per tanti anni. Un boccone amarissimo, che getta un’ombra pesante sul mio lavoro e sul mio impegno ponendo molti interrogativi sul futuro.

E’ stato un anno di grandi soddisfazioni personali, anche e soprattutto sul fronte giornalistico. L’anno in cui le collaborazioni con l’Osservatore Romano e (soprattutto) Avvenire da episodiche sono diventate ricorrenti, l’anno di due lunghissimi servizi su Medioevo: il primo proprio su san Valentino, a febbraio, e il secondo sugli scritti di Francesco d’Assisi, a ottobre.

E’ stato anche un anno molto sofferto sul lavoro, in cui – esattamente come l’anno precedente – ho vissuto due mesi da incubo, anche se – questa volta – senza alcuna ragione apparente. Eppure, prima e dopo quei due mesi, è stato un anno estremamente stimolante sotto il profilo professionale, segnato dall’Incontro Mondiale delle Famiglie e ben due udienze con papa Francesco, a maggio e a ottobre; quando, per la prima volta, con il Papa non ci ho fatto solo la foto, ma ci ho anche parlato!

E’ stato un anno di cinema: iniziato (reduce da Spider-Man No Way Home) con House of Gucci e finito con The Fablemans (così bello che forse posso persino perdonare a Spielberg di aver rinunciato a Indiana Jones 5).

Poi c’è proprio lui, il film atteso da 15 anni e atteso anche durante tutto il 2022: Indiana Jones e la Ruota del destino. Del quale è stato almeno svelato il titolo e il trailer.

E’ stato un anno di sofferenza atroce. Che paradossalmente, non è arrivata né dalla morte né dalla malattia di mamma, vissute entrambe con estrema serenità, anche se l’angoscia non è mancata (la notte più brutta della mia vita resta forse quella in cui – in agosto – è stata ricoverata per l’ennesimo scompenso cardiaco e io ero in Polonia, con Beata che un minuto prima di mezzanotte decide di comprarmi un biglietto aereo per rientrare in anticipo, e il viaggio fatto nell’angoscia di trovarla morta la mio ritorno. E invece, in ospedale, l’ho trovata serena e sorridente).

In fondo il momento veramente drammatico della malattia di mamma è stato piuttosto breve: iniziato ad agosto, finito a novembre.

La sofferenza più grande, invece, è arrivata dai rapporti umani. Su tutti quello con colui che era stato il mio migliore amico, che aveva rotto per 7 anni ogni rapporto con me – senza alcun motivo – e che avevo ritrovato alla vigilia della pandemia, nel 2020. E quel ritrovarsi era stata una delle ragioni per cui il mio 2020 era stato un anno di estrema felicità.

Quel rapporto appena ritrovato, si è nuovamente deteriorato nel 2021, ma l’anno appena concluso è stato esasperante per il continuo andare e tornare. Di fatto da dicembre 2021 a novembre 2022 ci siamo riconciliati e ri-allontanati almeno dieci volte. E non esagero. E la cosa più grottesca, è che tutte e dieci le volte ha fatto tutto lui da solo, con me passivo e sempre più destabilizzato.

Un’altra amicizia importantissima si è rotta drammaticamente a metà di questo 2022 per poi ricucirsi a sorpresa proprio grazie al matrimonio.

A fianco a queste due situazioni particolarmente drammatiche, ce ne sono state tante più piccole ma tante – troppe.

Nel 2022 ho litigato praticamente con tutti. E quasi tutti mi hanno scapocciato all’improvviso e senza apparente motivo, lasciandomi interdetto. Facendo letteralmente tutto da soli. Se c’è quindi qualcosa che ho imparato, in questa folle annata, è che ci sono cose che non puoi proprio controllare.

Tu puoi cercare davvero di comportarti bene, di essere rispettoso con tutti, di cercare di fare attenzione agli altri. E farli incazzare lo stesso. Puoi lavorare al meglio, in modo serio ed entusiasta, e ritrovarti comunque sull’orlo del licenziamento. Puoi dare il meglio di te cercando di non pestare i piedi a nessuno, e dare fastidio lo stesso, scatenando ritorsioni e guerre.

Come uomo di fede, tutto questo qualcosa può insegnarmi. Sicuramente può insegnarmi che nulla è in mio potere, che devo affidarmi a Dio e alla vita, non pretendere di controllare tutto. E accettare che le cose brutte accadono anche se tu cerchi di fare del tutto per non farle accadere.

A queste situazioni drammatiche e ad altre piccole e grandi delusioni umane (per non parlare di complotti e intrallazzi subiti) hanno fatto da contraltare però le amicizie ritrovate, le sorprese meravigliose arrivate per il matrimonio e per il funerale, con persone che mai avrei pensato di potere avere al mio fianco, e che invece c’erano.

Un capitolo a parte – o almeno un paragrafo – lo merita l’Istituto Giovanni Paolo II, dove lavoro da due anni e che – insieme all’Istess – ha assorbito quasi tutte le energie di questo 2022 (ben più di mamma e del matrimonio!).

Al di là della straordinaria esperienza di lavoro (il convegno alla Gregoriana ne ha rappresentato sotto tutti i punti di vista un momento incredibile), le udienze con il Papa (che in realtà sono state tre – se ci mettiamo anche quella in cui ho accompagnato Beata, per l’incontro con il Corpo diplomatico), a segnare quest’anno è stata davvero la trasformazione – per me – di un luogo di lavoro in una famiglia.

E’ stato meraviglioso vedere come un Istituto che si occupa di famiglia, sia una famiglia davvero: e – ancora una volta – il matrimonio e un funerale sono stati i momenti in cui mi sono reso conto di non avere dei semplici colleghi, ma davvero dei fratelli. Loro è stato il regalo più bello che ho ricevuto. Loro ho ritrovato in entrambe le occasioni, pur vivendo in un’altra città, pur conoscendoli in fondo da poco tempo.

E’ stato anche un altro anno sanitario forte. Pieno di visite, di esami; per un problema alla spalla, per la prima volta ho vissuto l’esperienza della fisioterapia che, pure è stata in fondo piacevole. Dolorosa fisicamente ma molto bella nel contesto.

E’ stato un anno di morte. Senza dubbio. Sul fronte pubblico, sono caduti in tanti. Quasi tutti i grandi vecchi: da Eugenio Scalfari a Piero Angela, da Michail Gorbaciov a Joseph Ratzinger fino alla Regina Elisabetta, il cui trapasso ha segnato davvero una svolta epocale per gran parte della popolazione mondiale. Perché Elisabetta era LA Regina non solo per la mia generazione e per quelli più giovani di me, ma anche per quella di mio padre.

E poi tanti morti premature: da Roberto Nobile fino al mio quasi coetaneo Andrea Murchio, proprio alla vigilia di Natale. E poi Paolo Graziosi, il mio predecessore all’Istess Enrico Cini.

Per quanto mi riguarda, oltre a mamma è morta un’altra persona importantissima: zio Gian Piero.

Zio Gian Piero è stato una sorta di leggenda vivente quando ero bambino: la sua storia d’amore con zia Pina era qualcosa di epico, che faceva impallidire qualsiasi telenovela, così come i suoi voli in deltaplano. E’ stato lui a tenere il mio battesimo del volo, a dodici anni, su un piccolo aereo da turismo. E il trauma è stato così grande che per trovare il coraggio di salire su un aereo di linea ci ho messo 33 anni.

Quando ero adolescente mi dava ripetizioni di matematica, mi parlava di Rommel e Mussolini e mi mostrava la sua collezione di armi totalmente illegale. “Se te la trovano ti arrestano” gli dicevo io.
“Io in galera non ci vado. Gli sparo e mi faccio ammazzare. Ma in galera non ci vado”.

La sua ossessione per il fratello, morto durante un lancio con il paracadute nel 1979. Un rapporto morboso, quello con Fabrizio. Che non ho mai capito fino in fondo. Tanto che a un certo punto ho iniziato a sospettare che Fabrizio – che lavorava ai servizi segreti – sia stato ucciso perché sapeva qualcosa che non avrebbe dovuto sapere. E che zio Gian Piero sapesse la verità, ma non potesse dirla, e allora celebrava così tanto il fratello per sublimare il senso di colpa.

Una delle ultime volte che l’ho visto gliel’ho chiesto apertamente: “E se il paracadute fosse stato sabotato? Se lo avessero ucciso?”.
“Non l’ho mai voluto sapere” mi ha risposto. “Ma è morto guardando il sole. Un attimo prima di morire ha scelto di godersi la vita”.
Che poi, a pensarci bene, sarà una frase poetica ma non significa niente.

Negli anni ‘90 zio Gianpiero ha iniziato a pubblicare libri fotografici. Silenzio e tempesta era stato il primo, nel 1992, dedicato alla Cascata delle Marmore. Poi c’è stato Le emozioni del sacro con cui avevo iniziato a collaborare anche io.
Con il libro successivo – Flaminia – ero stato il suo assistente. L’ho seguito per mesi, nelle chiese di Terni o nel parco archeologico di Carsualae, a reggere aste, a portare materiale, a osservarlo mentre osservava. A vederlo vedere cose a me invisibili. Lo sguardo dell’artista capace di rendere nuove e uniche tutte le cose, di farmi vedere con occhi completamente diversi immagini che credevo di conoscere sin da bambino, come il dipinto di Rita da Cascia nella chiesa di San Pietro, che era stata la mia parrocchia.

Durante quelle lunghe giornate di sessioni fotografiche parlavamo tantissimo. Ovviamente, soprattutto di guerra e di fascismo.

“Mussolini faceva le cose all’italiana” diceva sprezzante. “I nemici li mandava in esilio. Il tipo tedesco, invece, li eliminava”.

Mi prestò un libro – chiamato Rappresaglia – in cui si dimostrava come la strage delle Fosse Ardeatine fosse stata prevista se non pianificata dai partigiani, con il preciso obiettivo di sollevare la popolazione di Roma contro i nazisti. Un libro che, a dire il vero, non ho mai restituito.

Vent’anni fa – per una volta, su mia proposta – avevamo iniziato a lavorare a un libro sui luoghi di Francesco d’Assisi, con una sessione nello Speco di Narni. Io avrei potuto – per la prima volta – curare i testi (fino a quel momento aveva un rapporto praticamente di esclusiva con Mino Valeri) ma poi non se ne fece nulla e non ho mai visto nemmeno le immagini che scattò allo Speco, alla mia allora fidanzata (peraltro, ex futura monaca clarissa).

Le mie ambizioni da scrittore – in verità – non sono state minimamente assecondate da lui. Gli chiesi di far leggere i miei racconti al titolare della casa editrice Thyrus, che era un suo carissimo amico e con cui aveva pubblicato tutti i suoi volumi.

Avevo superato la mia insicurezza solo perché mi ero reso conto che Thyrus pubblicava davvero di tutto, anche cose francamente imbarazzanti, e per quanto fossi umile e insicuro sapevo che i miei racconti non potevano essere peggiori di certe pubblicazioni che mi ero trovato tra le mani.

Così gli diedi una raccolta. C’era il mio “capolavoro” Fuori Dal Muro, racconto lungo che rielaborava la leggenda del drago di Terni (Thyrus – appunto) in chiave fantasy. E c’era Tutto è relativo, in cui degli alieni giganteschi catturano e sezionano la Terra.

Panfili, l’editore, non si fece mai vivo, e mi fece dire da zio Gian Piero che i miei racconti non andavano. Non ricordo molto, a parte il fatto che Tutto è relativo non rispettava la legge di gravitazione universale e quindi era una puttanata.

La sostanza, comunque, era che io scrivevo molto bene, ma non avevo niente da dire.

Fui molto offeso non tanto dal giudizio in sé quanto soprattutto dal modo in cui fu espresso – e cioè per interposta persona – tanto più perché sapevo che Thyrus pubblicava la maggior parte dei libri a pagamento. Non essere degno nemmeno di essere raggirato, fu una cosa particolarmente umiliante.

Negli ultimi anni zio Giampiero era scomparso dai radar. Il suo ultimo libro risale a sette anni fa. Le sue epiche vicissitudini sentimentali si sono concluse una ventina di anni fa, con il matrimonio con una donna taiwanese che gli ha fatto “mettere la testa a posto” oltre ad avergli aperto nuovi orizzonti in estremo oriente.

Dalle voci che arrivavano, si era semi-trasferito a Taiwan e fisicamente stava messo piuttosto male.

Quando è morta mamma ero rimasto molto male per il fatto che non si fosse fatto vivo. Poi ho scoperto che se non si è fatto vivo perché si è fatto morto.

Zia Pina ha chiamato mamma per dirle che zio Gian Piero era morto. E ha scoperto che mamma era morta.

Non so come è morto zio Gian Piero, ma sicuramente non come avrebbe voluto. Immagino su un letto di ospedale, o a casa, al termine di una lunga malattia, non certo come sarebbe piaciuto a lui, in volo, con uno spettacolare incidente, magari scomparendo nel nulla come Antoine De Saint-Exupery.

Mi rendo conto di aver scritto di lui molto più che di mamma, ma la ragione è che di mamma – in questi mesi – ho scritto moltissimo – mentre di lui non avevo scritto nulla, se non quella brevissima battuta sul “farsi morto”.

Nemmeno i giornali hanno scritto nulla, a differenza del suo collega, omonimo e rivale Raspetti – come lui professore di matematica, ma su opposto fronte politico.

Raspetti è stato celebrato, comprensibilmente, in tutti i media; anche perché era un personaggio molto popolare e aveva addirittura fondato il giornale più letto di Terni. Io stesso di Raspetti ho scritto, mentre di Zanzotti no.

Rispetto all’altro Giampiero mio zio – mi sia consentito dirlo – aveva uno spessore culturale assai maggiore, ma era davvero un reietto e un eremita. Quando è morto è uscito un solo trafiletto – su Terni in rete, se ricordo bene – in cui, sostanzialmente, si dava conto della morte ricopiando per il resto la quarta di copertina dei suoi libri.

E proposito di libri, escludendo la saggistica (che tendo a spizzicare) a segnare il 2022 letterario è stato senza dubbio soprattutto Daniele Mencarelli.

Coetaneo di Enrico Brizzi (e più vecchio di me di appena un anno), mentre Brizzi diventava il più celebre scrittor giovane degli anni ‘90 con Jack Frusciante è uscito dal gruppo lui subiva un TSO nel reparto psichiatrico di un ospedale.

Quell’esperienza ha ispirato il romanzo che lo ha reso famoso nell’anno della pandemia: Tutto chiede salvezza. Che è poi un prequel del suo primo romanzo: La casa degli sguardi, in cui racconta di come a “guarirlo” dal suo mal di vivere è stata l’esperienza lavorativa nel Bambin Gesù (esperienza che aveva ispirato anche il suo primo libro in assoluto, di poesie).

Ho sentito nominare per la prima volta Mencarelli leggendo su facebook un post di Francesco Bruni (regista che avevo conosciuto grazie a Tutto quello che vuoi con Montaldo, e che poi ha firmato il film che ha dato il titolo al Terni Film Festival 2021: Cosa sarà).

Bruni scriveva – era la fine del 2020 – che aveva letto questo libro e lo aveva amato tantissimo, e aveva provato a comprare i diritti cinematografici, scoprendo però che erano stati già acquisiti.

Una delle cose che mi aveva colpito di più era che io Daniele Mencarelli lo conoscevo già. Ma un altro, però: il marito di Gabriella Compagnone, infatti, si chiama proprio così e – paradossalmente – è coetaneo del suo omonimo!

Particolarmente incuriosito da quel post, ero andato a leggermi la biografia di Mencarelli, scoprendo che il suo primissimo libro di narrativa l’aveva pubblicato con il mio editore: Graphe.it, col quale avevo appena pubblicato Accadde a Natale.

Così, per il programma natalizio fatto online, mi ero procurato – tramite l’editore – un’intervista con Mencarelli, avevo letto subito il suo folgorante racconto Luci di Natale e avevo comprato e iniziato a leggere Tutto chiede salvezza.

Con meno di un libro e mezzo letto, Mencarelli era diventato già il mio nuovo idolo. Anche se forse a colpirmi almeno tanto quanto le opere letterarie erano state le interviste. Una mente davvero illuminata, un personaggio completamente diverso da chiunque avessi conosciuto fino a quel momento.

Nella nostra intervista Daniele mi aveva anche anticipato qualcosa del suo nuovo romanzo, che sarebbe uscito dopo un anno, e che rappresentava il prequel di Tutto chiede salvezza. Vero e proprio terzo capitolo di una trilogia al contrario.

Quando, dopo un anno, è uscito Sempre tornare, ho invitato Daniele al Valentine Fest per consegnargli la prima edizione del Premio San Valentino per la Letteratura.

Così ho deciso di leggere questa trilogia sul percorso di dannazione e redenzione di un mio coetaneo, non nell’ordine di uscita ma nell’ordine cronologico, seguendo gli eventi che racconta.

Il primo romanzo che ho letto nel 2022 è stato quindi Sempre tornare mentre l’ultimo è stato Tutto chiede salvezza. Ora mi aspetta il terzo e ultimo capitolo La casa degli sguardi.

Tre le altre letture (non molte invero) di questo anno, sul fronte della narrativa, va segnalato il gradito ritorno di Fabio Bussotti e del suo commissario Bertone, con La ragazza di Hopper.

Bussotti, che è stato prima un mio mito come attore (era Leone nel Francesco della Cavani e Banana negli spot di Hurrà Saiwa), poi un amico e infine l’unico scrittore di cui fino ad oggi posso dire di aver letto tutto.

Nel mio personale catalogo natalizio ci sono state Natale nel nuovo mondo pubblicato da Graphe.it e I racconti del Ciocco di Stefano de Majo, completamente diversi sotto tutti i punti di vista (un inedito di un’autrice di un grande classico, e un self-publishing di un attore) ma che ho entrambi molto apprezzato.

Poi ho ripreso in modo un po’ più continuo a leggere la Bibbia, finendo il libro di Ester e arrivando ai Maccabei, e poi ho continuato la lettura della Divina Commedia anche se non ho ancora finito l’Inferno.

Libri letti e libri scritti: anche sotto il profilo letterario il 2022 è stato un anno importante e sofferto: posso dire di aver pubblicato ben tre libri in un anno. Due, però, li ho pubblicati da solo, e molto sottotono, con Istess Libri: Valentino e la maledizione della dea vacante è uscito il 22 02 2022 in 22 copie alle 22.02.
E pur di impuntarmi nel seguire questa suggestiva idea di Beata, l’ho pubblicato da solo senza aspettare i pareri degli editori (22, ovviamente) a cui l’ho mandato.

E che però hanno confermato la delusione. Il mio grande capolavoro si è rivelato il mio peggiore flop. Oggi devo pensare che in fondo ha fatto bene il mio editore a rifiutarlo, perché nessuno degli altri editori a cui l’ho inviato – ha avuto una reazione positiva. Né posso dire che sia stata positiva la reazione dei lettori, visto che nemmeno gli amici che hanno ispirato i protagonisti sembrano averlo letto, averlo finito, o averlo gradito.

Di fatto ad oggi ho solo due responsi veramente entusiasti del libro. Due. Che, per carità, niente non è, ma forse è un po’ poco per farne un successo.

Nessun editore sembra intenzionato a pubblicarlo (ovviamente gratis, io agli editori che pubblicano a pagamento nemmeno lo mando e se ci finisco incidentalmente rifiuto qualsiasi proposta).

Quindi i casi sono due: o la provocazione dell’anno scorso è destinata a diventare l’unica forma di pubblicazione di quel libro, oppure – seguendo le indicazioni del mio editore – sarò costretto a riscriverlo da capo.

Resta il fatto che il più ambizioso progetto letterario della mia vita, al quale ho lavorato per 7 lunghi anni, al momento è stato letto da meno di dieci persone e apprezzato da due.

Meno pretenzioso è Accadde a Natale 2020, concepito come strenna natalizia per amici e parenti e come “supplemento” – e non certo seguito – di Accadde a Natale.

Accadde a Natale 2020 è anche il mio unico libro tradotto in un’altra lingua. Beata l’ha infatti tradotto in polacco e stampato in una decina di copie.

Sul fronte saggistica, anche quest’anno sono rientrato tra gli autori del libro pubblicato dal Festival del Medioevo (il quale pure non ha mancato di infliggermi molte sofferenze): il titolo è Scriptoria, è dedicato alla scrittura nel medioevo e anche in questo caso – come avvenuto due anni fa – sono l’autore più presente.

Sicuramente sia Accadde a Natale 2020 che Valentino e la maledizione della Dea Vacante rappresentano due “sequel”. Io, a differenza di Monicelli, amo molto i sequel, mi piace l’idea di riprendere una bella storia e portarla avanti. E se pure non sarà mai all’altezza dell’originale, il sequel ci aiuta in qualche modo a prolungarlo. Quindi, sì, io amo molto i seguiti. E molti vengono bene. E se sono sempre meno originali, sono però sempre più maturi.

Ecco, io credo che il 2022 – nella mia vita – sia stato un vero e proprio “sequel” del 2020.

Nel 2020 mi sono sposato in Comune, nel 2022 in Chiesa, nel 2020 ho pubblicato Accadde a Natale e nel 2022 Accadde a Natale 2020, nel 2020 C’era una volta il Medioevo e nel 2022 Scriptoria.

Nel 2020 per la prima volta a casa mia ho avuto la televisione (a Roma) e nel 2022 mi sono affacciato nel mondo delle piattaforme. Questa è stata sicuramente una grande svolta, arrivata proprio alla fine dell’anno, e che mi ha già stravolto la vita.

Prima dell’avvento delle piattaforme, a segnare il mio 2022 è stato senza dubbio Young Pope che – in qualche modo – ha segnato il terzo e ultimo capitolo di una trilogia sul potere, iniziata nel 2020 con 1992 e proseguita nel 2021 con House of Cards.

Tre serie televisive che hanno in comune il fatto di aver segnato un’epoca pur essendo trasmesse su canali “minori”: satellitari o all’alba delle piattaforme.

Le tre serie sono accomunate anche dal fatto di raccontare la stessa storia più o meno allo stesso modo, in tre contesti diversi.

Il potere in Italia – 1992, 1993 e 1994 – il potere in America nelle sette stagioni di House of Cards, il potere in Vaticano, Young Pope e The New Pope.

Ad accomunarne due su tre, poi, ci sono anche due attori: Stefano Accorsi e Maurizio Lombardi. Di quest’ultimo peraltro, posso vantare anche un amicizia nata proprio in mezzo alle due visioni.

In tutti e tre i casi si tratta di serie di cui avevo molto sentito dire, ma che ho visto quando si erano già concluse definitivamente. Tutte e tre le ho viste rigorosamente in dvd, prima dell’avvento – nella mia vita – delle piattaforme, segnato proprio dal 2022.

1993 lo avevo anche girato, come comparsa. Credo sia stato l’ultimo film che ho fatto, ma di fatto a farmi venire voglia di vederlo è stato Hammamet di Gianni Amelio, ultimo film che ho visto prima della pandemia.

I primi due cofanetti li ho comprati in Italia. Siccome la terza stagione era stata trasmessa da pochissimo, invece, non era ancora disponibile. Almeno in Italia. In compenso Beata l’ha trovata in Belgio e me l’ha portata, consentendomi di vedere la serie tutta di seguito – come sarebbe stato anche per le due successive.

La serie su Tangentopoli l’ho vista in vari momenti di reclusione: la prima l’ho iniziata durante la convalescenza seguita all’estrazione del dente del giudizio, l’ultima l’ho finita in pieno lockdown.

Al contrario delle altre due serie, 1992 racconta un momento ben preciso della storia italiana, con nomi, cognomi e facce, anche se i veri protagonisti sono personaggi immaginari, nella tradizione del romanzo storico.

La serie americana e quella vaticana, invece, raccontando vicende immaginarie arrivano a fare una vera e propria summa della storia dell’America e della Chiesa Cattolica.

House of Cards – cofanetto completo, uscito quando Kevin Spacey è stato cacciato e la serie rimossa da Netflix – è stato uno dei più bei regali in assoluto che abbia ricevuto per il mio compleanno, nel 2021, e posso dire che mi ha – in qualche modo – cambiato la vita, anche se le ultime due stagioni non sono assolutamente all’altezza delle prime.

Infine Young Pope: se 1992 è italianissima e House of Cards americanissima (pur prendendo spunto da un prodotto britannico) una serie sul Vaticano non può che essere internazionale.

Confesso che essendo un vecchio fan di Sorrentino profondamente deluso dalla deriva segnata da La grande bellezza ero estremamente diffidente nei confronti dello stile onirico e barocco di Sorrentino applicato alla storia della Chiesa, già fin troppo mistica e barocca.

Il mio mantra era: con tutto ciò che di vero c’è da raccontare sulla Chiesa, perché inventare?

Con un papa rivoluzionario come Bergoglio che ha scatenato davvero le forze del male in Vaticano, con i mille misteri come Emanuela Orlandi e l’attentato a Wojtyla, che senso ha raccontare la storia di un giovane papa americano che veste Prada, fuma e beve la Cherry Coke? E recuperare fino all’esasperazione tutto quel barocco ecclesiastico che Bergoglio ha abbandonato?

Sembrava il trionfo dell’estetica vuota di un regista che da troppi anni ha troppi soldi per nutrire ancora qualche idea (avete presente il Generatore automatico di sceneggiature di Paolo Sorrentino, sì? O la Suora Nana Che Fuma di Crozza?).

Poi un arcivescovo mi ha detto: “Ti sbagli. Sorrentino parla della realtà, racconta il Vaticano di oggi”.

Così mi sono comprato il cofanetto della prima serie, anche se prima di trovare la voglia di vedermelo ci ho messo ancora qualche anno.

Invece l’arcivescovo aveva ragione. Con Beata abbiamo divorato in poche settimane la prima serie e – fortunatamente – abbiamo trovato subito anche quello della seconda.

Una vera e propria summa della storia della Chiesa: passata, presente e futura. Con tanto di – colpo di genio! – la suora nana che fuma.

Ovviamente da vaticanista e oggi dipendente della Santa Sede, di cose che mi hanno dato fastidio ne ho trovate tante: dai Giardini Vaticani – che nemmeno somigliano a quelli veri – all’idea, totalmente fuori da ogni logica – di un papa che parla in inglese non solo ai cardinali, ma addirittura ai fedeli in piazza.

Eppure, se ancora oggi la lingua della Chiesa è indiscutibilmente l’italiano, è molto probabile invece che in futuro l’inglese prenda il sopravvento anche da queste parti.

La sigla della prima stagione – in particolare – è un capolavoro assoluto, perché, a differenza della seconda (molto più frivola) – racconta in pochi secondi l’intera storia della Chiesa attraverso la storia dell’arte.

Se a segnare l’inizio del 2022 è stata Young Pope a segnare la fine è stata – come si diceva – l’arrivo delle piattaforme. Arrivate nella mia vita proprio grazie ad una serie attesa da più di dieci anni.

Se per Strappare lungo i bordi e i primi episodi di Vita da Carlo avevo trovato asilo in casa Cordeschi-Argenti, per vedere Boris 4 ho proprio digitalizzato il televisore, acquistando la famigerata firestick che – di fatto – ha cambiato la mia vita. Perché da allora – lo confesso – non ho più toccato un dvd e ho ridotto molto anche la mia presenza in sala.

Boris 4 lo aspettavo dal 2011. Dopo essermi avvicinato all’universo Boris con youtube e aver visto il film al cinema, avevo comprato tutti i cofanetti e di fatto Boris è l’unica serie che ho visto integralmente almeno due volte, forse tre.

Non c’è bisogno che vi dica quanto mi ha fatto girare i cosiddetti l’idea che finisse su una piattaforma, impedendo così il possesso fisico del prodotto che per un feticista come me è fondamentale. Sentivo qualche giorno fa in un’intervista Zerocalcare lamentare che il suo fan più estremista – capace di collezionare anche i disegni estemporanei fatti dall’artista – non aveva visto la serie, proprio perché – essendo pubblicata su Neflix – non poteva possederla.

Io memore del fatto che i miei cinefili antenati non potevano possedere i film che vedevano al cinema (di fatto l’home video nasce solo negli anni ‘70, come prodotto per collezionisti, e solo con l’avvento delle videocassette come fenomeno di massa) Boris 4 me lo sono visto lo stesso, anche se non lo posso possedere. Possedendo una firestick, avendo Amazon Prime e un’amica piuttosto generosa nella condivisione – posso vedere quasi tutto quello che c’è nelle piattaforme, o almeno quello che mi interessa.

E insomma questa delle piattaforme è stata una delle novità più significative del 2022. Anche se spero di cuore che mi passi questa ubriacatura e di tornare presto al cinema.

E’ stato un anno nel segno della famiglia: iniziato in famiglia, con le mie cugine, anche a causa delle restrizioni, l’anno in cui la famiglia ha assunto un’importanza sempre più grande, anche nel momento in cui una famiglia l’ho formata.

Un anno di morte. Di morte leggera, iniziato con il “rewatch” come si dice adesso, di Ghostbusters (1,2,3 e 4) e il regalo – da parte di Beata – dell’automobile in Lego: e se l’ultimo capitolo appare come un grande funerale di Harold Ramis, pochi mesi dopo la nostra re-visione è morto il regista Ivan Reitman.

Anche Boris 4 – che devo dire non mi ha assolutamente deluso – è stata una visione venata di morte: non solo perché mia madre è morta proprio lì in mezzo, tra la bellissima prima all’auditorium della Conciliazione presentata da Valerio Lundini e la visione su Disney+ con la nuovissima firestick.

Il punto è che la stessa serie è venata di morte: dall’omaggio a Roberta Fiorentini ai continui rimandi al “fantasma” di Mattia Torre, che in effetti aleggia per tutto il tempo. Fino ai segni evidenti della malattia di uno degli attori (che peraltro, è stato anche ospite al Terni Film Festival), che partecipa senza poter essere davvero presente e che non è intervenuto a nessuna presentazione.

E’ stato l’anno della guerra, con una morte incombente e la terza guerra mondiale alle porte, e anche l’anno della presa di coscienza definitivache non esistono i buoni e i cattivi in questo mondo, ma solo poteri in lotta. Un anno di solidarietà con l’Ucraina (con tre bellissimi focus a San Valentino, al festival e a Natale) ma al tempo di ferma opposizione alla guerra che Zelensky vuole portare avanti con le nostre armi.

E’ stato anche l’anno in cui per la prima volta mi sono ritrovato docente universitario, con un laboratorio di cinema condotto per il seminario di Giovanni Cesare Pagazzi sulle arti. Con lo stesso Pagazzi che, qualche mese dopo, è stato nominato segretario del nuovo dicastero per la cultura.

E’ stato anche l’anno in cui mi sono messo a studiare per la prima volta seriamente il francese, con un corso offerto dall’Istituto di Roma, totalmente online, e una bella amicizia nata con l’insegnante.

E’ stato l’anno del ritorno alla mia università, per il funerale del mio ex professore: Luca Serianni, investito da un automobile in un’estate di stragi, tanto da farmi coniare il termine di “pezofobia”.

E’ stato l’anno in monopattino, con il cambio di monopattino.

E’ stato l’anno del nuovo vescovo e di due incontri con papa Francesco.

Un anno politico, con una campagna elettorale che mi ha fatto prendere definitivamente coscienza della miseria della nostra sinistra e rivalutare, in fondo, una destra che oggi – da uomo di sinistra – trovo la cosa più credibile sulla scena partitica.

E tornando ai film, tra i visti su Neflix ospite di casa Cordeschi-Argenti anche L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, Alice con Alba Rorwacher visto al cinema Troisi (con Jasmine Trinca che – come nello spot del ritorno in sala – mi bussa alle spalle e mi dice “sei in fila?”) e il debutto della stessa Trinca visto al Sacher e raccontato su Tpi.

E’ stato l’anno di Don’t look up visto “privatamente” al Cenacolo e di CODA visto al Politeama, e ancora Westworld in dvd (il film il cui rapporto inversamente proporzionale tra bellezza e importanza è ai massimi livelli. Basti pensare questo mediocre b-movie ha ispirato – a vario titolo – le sage di Jurassic Park, Pirati dei Caraibi e Terminator oltre a una celebre serie), In fuga con Sean e Dylan Penn al Politeama, Licorice Pizza all’Intrastevere e poi Esterno notte di Bellocchio al Politeama. E ancora Giordano Bruno, in dvd. E finalmente Cosa sara (in dvd) e Contagion visto la notte in cui mi sono preso il Covid.

Sì, perché è arrivato – finalmente – anche il Covid. Una settimana chiuso in casa in giugno in cui mi sono goduto tutti i film girati su Aldo Moro, ma anche il caso Tortora con Ricky Tognazzi.

Ancora al cinema – esclusi i tanti di Hitchcock – Elvis all’Intrastevere, Yellow Submarine e Rocky Horror Picture Show alle Mura Aureliane, La mafia uccide solo d’estate sul Lungotevere, La santa Piccola e Lamb all’Isola Tiberina, Miss Marx alla Sapienza, il Golem all’anteprima del festival a Piediluco. E ancora Cry Macho in Piazza Vittorio. E poi il nuovo film di Krzysztof Zanussi, visto (solo un frammento perché dovevamo scappare) a casa sua, Il signore delle formiche all’InTrastevere Maigret a Terni, Siccità al Troisi, La stranezza di Andò all’Intrastevere, primo film visto dopo il festival. E ovviamente Carol of the Bells, il film che ha vinto il festival e che abbiamo riproiettato per Natale. E infine Spaccaossa al Farnese.

Ma è stato, soprattutto, l’anno di Alfred Hitchcock. Fino a quest’anno, pur amandolo moltissimo, lo conoscevo poco. I film che avevo visto si contavano davvero sulle dita di un paio di mani, mentre la rasssegna all’aperto in Piazza San Cosimato è stata l’occasione per diventare un vero cultore, con tanto di cofanetti in dvd, proiezione di un suo film al Terni Film Festival e visioni in trasferta.

Da Rebecca a Marnie il 2022 è stato senza ombra di dubbio L’Anno di Hitchcock.

Anche l’anno delle arene e di un’estate romana vissuta intensamente, complice anche l’assenza di vacanze. Che mi sono mancate, ma non come divertimento o come viaggio, ma solo come riposo. Posso dire di non aver mai staccato la spina e che – a conti fatti – non la stacco dall’estate del 2019. Quindi inizio a guardare con una certa ostilità i miei amici che stanno in montagna tutti i fine settimana…

E’ stato anche l’anno di Noa, con il concerto all’anfiteatro al termine del quale le ho consegnato il mio libro su san Valentino in cui c’è anche lei, e il giorno dopo Beata l’ha ritrovata a un evento dell’Unione Europea a Roma!

A teatro è stato l’anno della Grande Abuffata a San Giovanni con Ninni Bruschetta e di Shakespeare Juke Box al Festival del Medioevo di Gubbio e Houses sotto casa, al Belli, con Elisa Di Eusanio finalmente conosciuta dal vivo e I Separabili a Tor Bella Monaca con Gabriella, Alessandro Benvenuti (rivisto dal vivo dopo 20 anni) e Chiara Caselli, conosciuta quella sera e forse incontro dell’anno insieme a quello fortuito e fruttuoso con Andy Luotto. Fino ai “nostri” spettacoli all’Istess come i bellissimi I racconti del Ciocco di Stefano de Majo, In viaggio con Maria di Riccardo Leonelli e il “mio” sofferto Accadde a Natale.

Riguardo alle mostre, su tutte Jago.

E’ stato anche l’anno in cui (purtroppo!) sono tornato a vedere Sanremo, l’anno del decollo del nuovo Istess con mille eventi e con un “cast” che sono riuscito a completare proprio a dicembre con l’ingresso di Andrea Giuli e Gabriella Compagnone, l’anno della lunga ricerca di un nuovo direttore artistico del Terni Film Festival dopo le dimissioni definitive di Riccardo, e l’arrivo a sorpresa di Lucrezia Proietti e Moni Ovadia. L’anno del sofferto TgSuite, un’idea bellissima ma la cui resa non ha valso la spesa in termini soprattutto burocratici.

Sicuramente anche questo è stato un anno pochissimo in viaggio; solo Polonia e per pochi giorni. Anche perché ogni volta che sono partito si è scatenato l’inferno: nel primo viaggio ho rischiato di perdere il lavoro, nel secondo e nel terzo mia madre.

Quando sono tornato in Polonia a ottobre, dopo il viaggio da incubo di agosto, il giorno stesso della partenza ha ricominciato a stare male. Anche quella volta sono rientrato in anticipo, e poi qualche giorno dopo è stata ricoverata. L’ultimo ricovero. Il più sereno.

A novembre mi sono rifiutato di andare in Francia, per il festival di La Salette: “Se parto ti viene un altro scompenso” le ho detto. Sono restato. Lo scompenso non è arrivato. Almeno per altri dieci giorni.

E’ stato l’anno del dimagrimento, in cui sono passato da 92 kg fino a 86 il giorno del matrimonio. Slavo poi tornare a 92 a fine anno. D’altra parte è stato un anno in Osteria, in cui Trastevere l’ho vissuto davvero fino in fondo.

Un anno di grandi eventi: festival, convegni, rassegne musicali, matrimoni, funerali, ambulatori e ospedali, treni, treni in anticipo persi all’ultimo momento, treni in ritardo, anche di quattro ore. E adesso – per dirla con Forrest Gump – sono un po’ stanchino.

31 gennaio 2023

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