10 agosto 198

L’aria era fresca in quella sera di mezza estate, nella villa di Trastevere dei Flamini, e la festa invitava a bere e a danzare.


Era stato Lorenzo a convincere Valentino e Cecilia che non c’era niente di male a partecipare a quel pranzo. “Chi canta prega due volte – aveva scherzato – e chi balla, almeno tre!”

La tavolata era disposta a ferro di cavallo nel grande banchetto all’aperto. Gli invitati erano sdraiati sui triclini, dietro i tavoli, mentre i servi mangiavano e bevevano seduti a terra, aspettando di riportare a casa i loro padroni ubriachi.

Al centro del giardino c’era una fontana. Sull’acqua della vasca si specchiava un dipinto che ritraeva Narciso che, a sua volta, ammirava il suo volto riflesso nell’acqua del fiume.

Giovani schiavi di bell’aspetto, con tuniche dai colori vivaci, andavano e venivano nel giardino: alcuni lavavano le mani e i piedi agli ospiti cantando, altri portavano vino e vivande seguendo gli ordini di Tito, il tricliniarca, intento ad assaggiare il vino e a stabilire la quantità da aggiungere all’acqua prima di farlo servire.

E’ qui la festa?” aveva gridato Lorenzo entrando nel giardino, sorridendo ai convitati.


Gli stuzzichini piccanti erano stati serviti su vassoi sorretti da statuette con enormi falli; dopo aver gustato il vino mielato era arrivato un vassoio con sopra una cesta in cui c’era una gallina di legno. Due schiavi avevano frugato tra la paglia tirandone fuori uova di pavone, poi le avevano distribuite insieme ai cucchiaini. Intanto su una graticola d’argento sfrigolavano dei salsicciotti, e sotto la graticola susine di Siria con chicchi di melograno.

Tra la meraviglia generale era arrivato un grande piatto rotondo in cui erano rappresentati, in giro, i dodici segni zodiacali, e su ognuno era collocato il cibo che meglio si adattava al soggetto: sull’Ariete ceci aretini, sul Toro un pezzo di manzo, sui Gemelli testicoli e rognoni, sul Cancro una corona, sul Leone un fico d’Africa, sulla Vergine una vulvetta, sulla Bilancia una bilancia con una focaccia al cacio su un piatto e una al miele nell’altro, sullo Scorpione un pesciolino di mare, sul Sagittario un occhiofisso, sul Capricorno un’aragosta, sull’Acquario un’oca, sui Pesci un paio di triglie.

All’applauso dei convitati si era alzato in piedi Vinicio con una brocca in mano e aveva gridato: “A questo vino dovete fare onore. I pesci bisogna che nuotino!”.

Finalmente era arrivano il momento dell’esibizione di mimi, cantanti, musici e danzatori, mentre alcune signore – già ubriache – si facevano sorreggere dai rispettivi schiavi per non crollare sulla tavola.

A un certo punto Lorenzo e Cecilia, decisamente brilli, avevano raggiunto gli artisti al centro del salone e si erano messi a ballare con loro.

Valentino, curvo e curioso, taceva. Guardava i due amici danzare mentre i musici ci davano dentro con tibie, buccine, litui, tube e tamburi.

Lorenzo si dimenava come un ossesso mentre Cecilia disegnava col suo corpo movimenti eleganti e aggraziati.


Non si era mai accorto che fosse così bella, Cecilia. Aveva i capelli rossi, raccolti in una treccia. Dai suoi occhi riluceva la grandezza di un animo capace di rapire i cuori dei più valenti giovani cavalieri romani.

La sua era una delle famiglie più antiche dell’Urbe: tra gli antenati poteva vantare Caia Cecilia Tanaquilla, che aveva sposato Tarquinio Prisco quinto Re di Roma, e Cecilia Metella, moglie di Marco Licinio Crasso, che aveva soffocato la rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco e costituito il primo triumvirato con Cesare e Pompeo. Il suo imponente mausoleo si poteva ammirare ancora al terzo miglio della via Appia, lasciando senza fiato ogni viandante e fieri i suoi discendenti.

I genitori avevano avviato Cecilia, sin da bambina, allo studio della danza, dell’organo, dell’arpa e del canto. E ora, anche nella sua nuova vita, la ragazza non aveva rinnegato quelle arti.

La musica desta potentemente l’anima all’amore – diceva – perché essa ci viene da Dio, che è amore sommo, purissimo e perfetto. E il Paradiso non è che regno d’amore”.

D’altra parte – aveva detto una volta a Valentino – nella Bibbia sta scritto che in cielo si godono armonie e che la musica e il canto sono la lingua degli angeli”.


Quando parlava, Cecilia, gesticolava in continuazione; forse per timidezza o per imbarazzo. Forse perché era un’artista. Ma Valentino la trovava deliziosa in quel suo buffo armeggiare con le mani.


“Se David col suo canto e con la sua cetra vinse e soggiogò lo spirito di Saul – gli aveva detto – e ancora presso di noi la musica affascina i serpenti del deserto e ammansisce le belve, chi potrà mai capire quanto incantevole può essere la musica del cielo?”.

Quella sera indossava un vestito tessuto in oro, stretto ai fianchi da una fibula gemmata e avvolto in un velo di colore fiammante e una corona di fiori in testa. In un momento si avvicinò a Valentino, lo fece alzare dal triclinio e lo trascinò al centro della sala.

Lei aveva occhi tristi ma volteggiava e rideva e Valentino finì per farsi contagiare da quel ritmo, lasciandosi trascinare nella danza. Una danza profana ma che, così vicino a Cecilia da sentire addosso il suo respiro, gli appariva quasi un rituale mistico.

C’era qualcosa, in quel dondolare di corpi a tempo di musica, che li faceva sentire uniti. Erano uno di fronte all’altro e le loro mani si sfioravano appena; eppure c’era qualcosa di incredibilmente potente in quella danza che disegnando movimenti nell’aria li faceva penetrare l’una nell’altro, quasi che quel ritmo ossessivo facesse dei due giovani un corpo solo.


Lui disse:

son zoppo per amore

la donna mia mi ha spezzato il cuore

Lei disse:
il cuore del mio amore

non batterà mai più

Mentre ancora si danzava e si beveva cantando e applaudendo, era arrivato uno schiavo con uno scheletro d’argento con le giunture snodate e flessibili, e lo aveva gettato sulla tavola, recuperato, e rigettato ancora due volte, facendogli assumere ogni volta pose diverse.

Vinicio si era alzato in piedi di nuovo.

Ahi, che miseri siamo – aveva detto – che nulla a pesarlo è l’ometto! Così saremo tutti quel giorno che l’Orco ci involi. Perciò viva la vita, finché si può star bene”.

Dopo un altro brindisi Giulia aveva chiesto a Cecilia di suonare. Lei, incoraggiata dalle voci inneggianti dei convitati, si era seduta all’organo ad acqua e aveva intonato una melodia che con consapevole retorica azzarderemo a definire celestiale.

Valentino osservava ammirato e rapito le mani danzare sui tasti, le spalle della ragazza ondeggiare, i suoi occhi chiusi, il mento proteso verso l’alto, quasi a cercare nel cielo l’ispirazione per la melodia che andava improvvisando.

Sembrava in estasi mentre suonava, Cecilia. Il suo volto a tratti appariva sofferente, lo sguardo disperato, sul punto di scoppiare in pianto; un attimo dopo era rilassato e gioioso. Tanta era la passione e la sensualità nelle mani e nell’espressione di Cecilia, che Valentino aveva quasi l’impressione che quella vergine stesse facendo l’amore anziché suonare uno strumento.

Ad un tratto si era voltata verso di lui e aveva sorriso. Valentino si era lanciato in un entusiastico applauso, seguito da tutti gli altri.

Appena Cecilia era tornata a sedersi a tavola, avevano ripreso ad arrivare le portate: un asinello in bronzo con le bisacce piene di olive, poi i capponi e pancette, e in mezzo una lepre fornita di ali a fare Pegaso. Infine era arrivato un maiale gigantesco e il cuoco, squarciandone il ventre, ne aveva fato uscire salsicciotti e ventresche, uccelletti e pesci. E ancora l’oca, poi i datteri – freschi e secchi – i frutti di mare, gli asparagi, scampi, pasticcio d’ostrica, pavoni, pernici frigie, murene, storione di Rodi, dolci e lingue di pappagallo, frutta, bocconcini di carne, pagnotte, aragoste, molluschi.

Dopo l’ennesimo brindisi Lorenzo si era alzato e si era avvicinato a Valentino e Cecilia.

Ragazzi, la notte è scesa. E’ tempo di andare”

Vuoi andare già a dormire?” lo aveva canzonato Valentino.

A dormire? Ah, tu non hai proprio capito, caro il mio ternano!”

Perché, che intenzioni hai?”

Venite con me” disse trascinandoli fuori della villa.

Presero a camminare tra le strade buie di Trastevere, illuminate solo da qualche lucerna lasciata accesa all’interno delle case.

C’era un silenzio irreale, rotto solo dal rumore dell’acqua di una fontanella di quartiere e dal suono, in lontananza, dei cerchi di ferro delle ruote dei carri diretti alle botteghe per le consegne, qualche bestemmia, l’eco dell’abbaiare di un cane.

In fondo alla strada si muoveva un ubriaco, che mormorò qualcosa di incomprensibile e prima di infilarsi in un vicolo, barcollando, inciampò su un barbone che dormiva per terra, poi incrociarono una ronda di vigili prima di uscire in aperta campagna.

Dove ci porti?” chiese Cecilia a Lorenzo.

Vi farò vedere il più grande spettacolo dopo la Creazione”

A quest’ora? Ma tu sei matto”

Siete matti voi, se non l’avete mai visto”

Dobbiamo camminare ancora a lungo?”

No, andrà benissimo questo prato. Sdraiatevi a terra e guardate in alto”

Sdraiarci a terra? Per Giove, Lorenzo, Cecilia ha il vestito della festa!”

Uh, ma cosa vedo, due aristocratici cristiani che hanno paura di sporcarsi il vestitino della festa. E’ questo che hai imparato alle catechesi?”.

Cecilia si sdraiò sul prato. “Che spettacolo meraviglioso” fece subito.

Vuoi darci una lezione di astrologia, Lorenzo?” disse Valentino.

Ah ah. No, non oggi. Ne abbiamo già avuta una prima, mi pare. Guarda, e taci”.


Valentino raggiunse i due amici per terra. Capelli tra l’erba. Pelle a pelle con il mondo. Libero di perdersi nel cielo.

Era un enorme tappeto blu tempestato di diamanti.

Guardate – disse Lorenzo – il cielo stanotte è qui con noi”.

Forse le stelle sono le anime di tutte le persone che ci hanno lasciato, che ora sono lassù e ci guardano” disse Cecilia.

Ci sarà, c’è sempre stata – rispose Lorenzo – la tua stella fortunata, proprio come ora sotto questo tetto di magia”.

Una scia fulminea brillò per un secondo nel cielo. Una sorta di cometa istantanea.

Cecilia e Valentino emisero, all’unisono, un grido di stupore.

Lorenzo rise. “Cosa hai visto, Cecilia?”

Vedo stelle che cadono”

E’ la notte dei desideri”.

Valentino prese a ridere. A ridere di gioia.

Quale meraviglioso mondo aveva creato, l’Onnipotente.

Guardate – riprese Lorenzo – quella è l’Orsa maggiore. Lì in mezzo c’è una stella piccolissima. Una lucina fioca fioca. Ma se la osservi attentamente si sdoppia e ti accorgi che in realtà sono due stelle. Piccolissime. Unite nella luce”.

Come una coppia di sposi, uniti nell’eternità” mormorò Cecilia, mentre Valentino diceva la stessa cosa.

Si voltarono l’uno verso l’altro e sorrisero.

 

Valentino cercò quelle stelle gemellate nell’immenso panorama di miliardi di luci, e si perse nel cielo.

Contemplando quella semplice meraviglia eterna e infinita ebbe la percezione di quanto stupida sia questa vita così pratica, così palpabile, così materiale.

Vanità di vanità.

 

Gli sembrava che le stelle si muovessero verso di lui. Si sentiva trasportato verso l’alto, in quell’immenso universo, sempre più leggero. Sentiva scivolare via tutte le preoccupazioni, tutte le ansie, tutto il peso di questa vita terrena.
Tutto scivolava mentre lui era rapito verso in cielo; il peso del mondo lasciava posto ad una felicità fatta di essenza pura e totale.

 

Le case, gli alberi, i templi, le basiliche, le botteghe, i lupanari, l’anfiteatro, il circo, il foro e il Palatino… tutto scivolava via.

Restava l’infinito.

L’assoluto.

 

A richiamarlo alla realtà fu l’ombra di Lorenzo, che si era alzato in piedi.

Dove vai?”

La materialità di quest’esistenza carnale mi chiama” rispose l’iberico.

Cosa?”

Valentino, devo fare un bisogno…”.

 

Quando Lorenzo si fu allontanato, Cecilia si voltò verso di lui.

Lo fissava, con quello sguardo da cerbiatto triste. E lì, al profumo dei fossi a lui parve di poter vedere in quegli occhi brillanti lo stesso dolore che spezza le vene, lo stesso amore che lascia sfiniti la sera.

Parlami di tuo marito” sussurrò.

Si chiamava Valeriano – rispose lei – e il giorno del mio matrimonio è stato il più bello della mia vita”.


“Circondata da parenti, amici e il grande seguito dei servi, avevo lasciato la casa di famiglia al Campo Marzio incamminandomi verso la villa di Valeriano, qui a Trastevere.

Ragazzi e ragazze mi precedevano segnando con faci nuziali la via che doveva portarmi all’abitazione del mio sposo. Un ragazzino, che camminava al lato della strada, portava la cesta con dentro i monili ricevuti in dono da parenti e amici. Tutto il popolo applaudiva al nostro passaggio e ci faceva gli auguri.

In casa, le porte del peristilio e dell’impluvio erano messe a festa, adornate da festoni e ghirlande di verzura e di fiori e rami di alloro.

Valeriano, con uno splendido vestito e i capelli tagliati in segno di letizia, mi aspettava sulla soglia. Quando arrivai lui mi domandò, secondo l’uso, chi fossi. Poi entrai in casa e ne presi possesso ricevendo dalle mani del mio sposo le chiavi, seduta su un vello di montone.

Se ti è sembrata una grande festa, quella di questa sera, non puoi nemmeno immaginare così sia stato il mio banchetto di nozze, tra il suono degli strumenti e il canto dei ragazzi.

Poi, quando il clamore cessò e gli invitati se ne andarono, io e Valeriano fummo accompagnati nel talamo nuziale, arredato con tutto il lusso patrizio.

Il cuore mi batteva forte. E prima che ci coricassimo rivelai a Valeriano il mio segreto”.

Il tuo segreto?”

Sì. Un angelo mi protegge e custodisce gelosamente il mio corpo”.

Valentino la guardò con una certa perplessità.

L’angelo – dissi a Valeriano – se anche soltanto si accorge che tu mi ami con amore poco casto, subito rivolgerà a te il suo furore, e tu ti perderai il fiore della tua giovinezza. Ma se riconoscerà che tu mi ami di cuore puro e di casto amore, egli amerà te come me, e ti dimostrerà la sua benevolenza”.

E lui? Come ha reagito?”

All’inizio era sconvolto di fronte a quelle parole. Poi mi chiese, per credermi, di mostrargli questo angelo. “Se sarò fatto certo – disse – che egli sia veramente angelo di Dio, farò a modo tuo. Ma se scopro che ami un altro uomo, finirò di spada sia te che lui!”.

Lo potrai vedere – risposi io – solo se ti lascerai purificare in una fonte perenne”.

E chi sarà mai – rispose lui – che mi possa purificare permettendomi di vedere questo angelo?”.

C’è un grande uomo – dissi io – che sa rendere puri gli uomini e farli meritevoli di vedere l’angelo di Dio”.

Dove posso trovarlo?”.

Vai fino al terzo miglio della via Appia. Qui c’è l’ingresso alle Catacombe. Troverai dei pastorelli che chiedono l’elemosina a quelli che passano. Loro conoscono il mio segreto. Darai loro la mia elemosina dicendo ‘Cecilia mi manda a voi, che mi mostriate il santo vecchio Vittore’. Quando lo vedrai, gli riferirai tutte le mie parole. E quando ti avrà lavato con l’acqua salutare, ti rivestirà di vesti nuove e bianche e vedrai che l’Angelo diventerà tuo amico, e tutto quello che gli chiederai lo otterrai”.

Io voglio te, e nient’altro”.

Così Valeriano partì subito da casa, nella notte profonda, e camminò per le vie deserte fino all’Appia. Qui trovò l’apertura delle catacombe e ci si infilò, alla luce della piccola fiaccola che aveva portato. Appena entrato trovò la turba di mendicanti cristiani.

Cecilia mi manda a voi – disse – per darvi la sua benedizione e per condurmi al santo vecchio Vittore, perché ho per lui un messaggio segreto”.

Al mio nome subito si commossero quei poverelli, e lo portarono fino ai sepolcri, dove trovò Vittore, che viveva lì dopo essere scampato a due attentati dei pagani.

Il vescovo mostrò subito a Valeriano le Sacre Scritture e le lettere di san Paolo.

Leggi questo libro – gli disse – perché tu sia fatto degno di vedere l’angelo”.

Valeriano pose gli occhi nel volume e cominciò a leggere:

Un solo Signore, una sola Fede, un solo Battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutte le cose e in noi tutti.

Credi tu che così è, o ne dubiti ancora?” disse Vittore.

Valeriano fece subito confessione di fede e il vescovo, in una sola notte, gli tenne un intero corso di catecumenato. Poi attinse l’acqua del fonte rigeneratore e la versò sul capo del giovane ingenuo nel nome del padre, del figliolo e dello spirito santo”.

Io, intanto, ero rimasta sola a pregare un Dio di cui non conoscevo il nome, di cui non sapevo nulla, se non quel misterioso messaggero che mi appariva nella mia solitudine e le suggestioni di quella caverna abitata dai santi.

Non avevo mai letto le Scritture, non avevo mai partecipato alle catechesi.
Per me Dio era musica. Soltanto musica. Cantavo e suonavo e mi sentivo protetta.

Rendi o Signore immacolato il cuore e il corpo mio, affinché io non resti confusa” ripetevo.

Cantai e suonai tutta la notte, e Valeriano tornò all’alba che sembrava un uomo nuovo. E insieme a lui vidi entrare anche il mio angelo bellissimo e fortissimo, raggiante in viso, maestoso e benigno negli occhi e alato di penne lucidissime. Aveva tra le mani due corone di rose porporine e di candidi gigli: una la mise sulla mia testa e l’altra sulla testa di Valeriano dicendo: “Queste corone custodite col cuore illibato e col corpo puro, perché dal Paradiso di Dio le ho portate a voi, ma solo gli animi puri potranno vederle e sentirle”.

Qualche giorno dopo eravamo seduti a pranzo quando arrivò Triburzio, fratello di Valeriano. Quando mi salutò baciandomi sulla fronte sentì un fortissimo odore di fiori freschi.

Da dove viene questo odore di rose e di gigli? – disse – Vi confesso che mi sento così confortato da questa fragranza e soavità, che mi sento come rinato nello spirito”.

Questo odore – rispose Valeriano sorridendo – hai meritato di sentirlo per le mie preghiere. Ma se ora tu crederai al vero Dio, sarai degno di vederle con i tuoi occhi, le rose e i gigli, e di comprendere chi sia Colui il cui sangue rosseggia fiorente in seno alle rose e il corpo biancheggia fra i candori dei gigli. Perché io e Cecilia abbiamo due corone che gli occhi tuoi non riescono ancora a vedere”.

Sognando sento queste cose – fece, quasi tra sé Triburzio – o le dici davvero, Valeriano?”.

Sognando siamo vissuti fin troppo fino ad oggi, e ora professiamo la verità. Gli dei che abbiamo adorato non sono, in realtà, niente altro che demoni dell’abisso. E anche tu vedrai l’angelo di Dio, se prometterai di rinunciare a tutti gli idoli e credere in un solo Dio che è nel cielo”.

La notte era fresca e silenziosa a Trastevere. Il canto dei grilli era l’unico rumore che si sentiva, sotto il cielo stellato.

Consigliato da Tarquinio, il suo assessore – raccontava Cecilia – Almachio, diede ordine di giustiziare subito Valeriano e Triburzio, con l’obiettivo di impossessarsi delle loro ricchezze prima che fossero distribuite ai poveri. Massimo, il Cancelliere, aveva ricevuto l’incarico di ucciderli davanti alla statua di Giove, in un campo che si trovava in un villaggio vicino Roma. Ma mentre accompagnava i due giovani al supplizio, cominciò a sentirne tanta pietà da piangere la loro sorte.

O bel fiore della gioventù romana – diceva – perché volete perdervi per un crudele capriccio, e correte così frettolosi alla morte come a un convito?’.

Ma loro risposero che non avevano paura, perché erano certi di una vita eterna e più bella di quella presente, e cominciarono a parlare della vanità delle cose di quaggiù e della bellezza dell’eternità. Così insinuarono nell’animo del Cancelliere il dubbio su quale fosse la verità e la voglia di saperne di più. E Massimo, anziché al patibolo i due prigionieri se li portò a casa.

Valeriano e Triburzio, da vittime divennero i suoi catechisti. Finì per convertirsi non solo lui, ma tutta la sua famiglia.

Non puoi immaginare l’emozione che provai quando venni a sapere che mio marito e mio cognato erano stati capaci di convertire il loro carnefice e tutta la sua famiglia! Davanti ai miei occhi Massimo e tutti i suoi soldati professarono solennemente la fede cristiana e furono battezzati.

La casa del Cancelliere di Almachio era diventata un tempio e tutti quelli che la abitavano non vivevano che di un volere e di un’aspirazione”.

Cosa è successo, poi?” chiese Valentino.

Conosci il Pago?”

Sì, è un sobborgo sulla via Appia dove c’è il tempio di Giove”.

Chiunque entra nel tempio senza presentare incensi a Giove viene immediatamente ucciso”.

A essere sincero io non ho mai sentito nulla del genere” osservò Valentino. “Partirono tutti e tre alla volta del tempio – riprese Cecilia – Valeriano, Triburzio e Massimo. E ripercorrendo quella stessa via dove sono le nostre catacombe, sentivano cento voci dei fratelli martiri che dalle sotterranee bocche del cimitero uscivano a rincuorarli. Alla fine arrivarono al tempio. I sacerdoti del culto gli porsero gli incensi ma loro li rifiutarono, inginocchiandosi e porgendo il collo al carnefice.

E finalmente, percossi dalla scure, si liberarono dal corpo mortale”.

Valentino si passò istintivamente una mano sul collo.

La notte era alta quando, raggiunto il luogo, posai il mio piede su quel lago di sangue. Mi inginocchiai impregnandomi tutta la veste, scivolai e caddi in avanti”.

Valentino guardava la ragazza con gli occhi sbarrati.

Mi ritrovai faccia a faccia con la testa di Valeriano. La afferrai, la baciai e gridai tutta l’angoscia e tutto l’amore che sentivo esplodere nel cuore. Poi me la misi in grembo e iniziai a vagare per le strade buie urlando tutto il mio strazio”.

Scoppiò il lacrime. Valentino la abbracciò e le accarezzò la testa con dolcezza.

Mi hanno trovata che era quasi l’alba, col vestito tutto insanguinato e la testa di mio marito tra le mani – diceva singhiozzando – io li ho accompagnati sul luogo del martirio. Abbiamo raccolto i corpi e li abbiamo sepolti”.

Prese a piangere ancora più forte. Valentino si sentiva straziato e impotente di fronte a tanto dolore. Continuava ad accarezzarla e baciarla sulla fronte.

Vado ogni giorno nelle catacombe, a pregare, chiedendo di poterlo raggiungere il prima possibile” singhiozzava la ragazza, con la fronte appoggiata sulla spalla di Valentino.

Poi si calmò. Restarono in silenzio, guardandosi negli occhi.

Cecilia aveva uno sguardo dolcissimo e Valentino aveva paura di affogarci, dentro quegli occhi così grandi.

E tu, Valentino? Perché non sei sposato?”

Il nostro esitò.

Sono sposato” disse infine, lentamente.

Un’ombra calò improvvisa su quel viso dolcissimo. E Cecilia non si sforzò di nasconderla.

E perché lei non è qui?” si limitò a dire.

E’ pagana”.

Pagana? Allora – rispose lei, arrossendo – allora puoi ripudiarla. Lo dice anche san Paolo”.

Valentino fece un gran sospiro. E accarezzò dolcemente le guance bagnate di lacrime della ragazza, scuotendo la testa.

No. Non la ripudierò mai. Io la amo”.

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